L’ultimo giorno di Marinella bambina del Vajont

di Nicolò Menniti-Ippolito
La bibliografia sulla tragedia del Vajont è ricchissima: qualche centinaio di titoli che il Comune di Longarone ha raccolto e sta provvedendo a catalogare. Si tratta di saggi tecnici, di reportage, di ricostruzioni, di testimonianze, anche di qualche raro romanzo. Fra questi si inserisce ora “La storia di Marinella” di Emanuela Da Ros, un libro per ragazzi, edito dalla Feltrinelli, (verrà presentato a Padova, alla Fiera delle parole, domani alle 9 in Sala Paladin).
Emanuela Da Ros è una giornalista di Vittorio Veneto, che da una quindicina di anni scrive libri per ragazzi, spesso di carattere umoristico, e tuttavia in questo caso ha deciso di affrontare un tema più drammatico, anche duro, in cui la morte necessariamente occupa un posto importante.
Perché ancora il Vajont?
«A Fortogna, nel cimitero monumentale che ospita le vittime del Vajont, sono raccolti alcuni reperti trovati nel fango dai soccorritori: oggetti quotidiani, come un quaderno di scuola, aperto su un tema scritto proprio il 9 ottobre del 1963. Il tema è firmato Marinella e si intitola “La mia mamma”. Leggendolo mi sono chiesta chi fosse Marinella; perché una tragedia nella tragedia è l’oblio che è caduto su molte vittime. Non solo più di 700 vittime non sono state identificate, ma in molti casi la scomparsa di intere famiglie ha fatto perdere del tutto la loro memoria».
Marinella era una di queste?
«Sì. L’ho scoperto cercando di trovare tracce della sua vita. Nell’elenco delle vittime ho cercato il suo nome e l’ho trovato perché era l’unica Marinella. Aveva 10 anni, veniva da Baricetta, una frazione di Adria, ed è morta insieme ai suoi genitori. Ho parlato con Ulderico, il vigile del fuoco che ha trovato il suo quaderno e lo ha conservato come una reliquia per vent’anni per poi donarlo al cimitero quando è stato ristrutturato. Ho cercato le sue compagne di scuola sopravvissute, ma di lei nessuno si ricordava, alcuni hanno totalmente rimosso i ricordi. Solo una zia ha potuto raccontarmi alcuni particolari e darmi un paio di fotografie: così ho deciso di darle voce, di raccontare io la sua storia».
Utilizzando la fantasia o ricostruendo la realtà?
«Tutte e due le cose. Molti particolari me li hanno raccontato un paio di maestri sopravvissuti. A loro ho chiesto quali persone, per esempio, avrebbe potuto incontrare Marinella andando a scuola e questi personaggi, come il sindaco, li ho messi nel mio romanzo. Altre cose sono invece inventate, come il suo amico Marco, scappato da Casso perché lì il timore per la diga era più grande, mentre Longarone si sentiva più al sicuro. Ho provato a raccontare un solo giorno, il 9 ottobre, seguendo le ore della giornata, dalla sveglia fino al momento della catastrofe».
Un giorno normale, nella vita di una bambina.
«Sì, un giorno normale, ma con la percezione che qualcosa sta avvenendo. Ne parlano gli adulti che discutono degli articoli di Tina Merlin, lo sentono gli animali che, me lo hanno raccontato, sono irrequieti. Marinella è spensierata, vive piccole avventure, anche umoristiche come è nel mio stile, ma sullo sfondo c’è la diga, ci sono i segnali di pericolo non raccolti».
La tragedia dalla parte dei bambini?
«Tra le 1910 vittime del Vajont ci sono 487 bambini e per questo ho voluto raccontare la storia di una di loro, una dei tanti».
Ma come si racconta una vicenda così tragica a dei ragazzi?
«La prima parte del libro è abbastanza leggera, poi c’è una pagina bianca, che coincide con il momento della catastrofe e una seconda parte più drammatica, più commovente in cui, senza traumatizzare chi legge, racconto con la voce di Marinella quel che è successo. I ragazzi sono meno vulnerabili se gli racconti la verità. È importante che capiscano che quando il paesaggio viene snaturato non si può fare finta di niente».
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