Macchiette padovane: Ernesto e il suo berretto da finto posteggiatore

Nella città del dopoguerra, tra i personaggi più naif, lui era la variante maschile della Gaetana. Quando gli regalarono un triciclo perché non camminava più. La beffa dell'aringa sotto il ponte Barbarigo

PADOVA. Neppure il leggendario ammiraglio Yamamoto, alla guida della flotta imperiale giapponese, calzava sul capo la propria feluca con l’identico orgoglio identitario con il quale lui sfoggiava il suo berretto da posteggiatore rigorosamente abusivo. Nella Padova del secondo dopoguerra,

Ernesto esercitava la funzione della quale si era auto-investito, con esemplare dignità e consapevolezza del ruolo. E lo faceva nel centro del cuore antico di Padova, in un’era geologica estranea alla pedonalizzazione: in piazza Cavour, davanti al bar Racca, dove i pochi vip di allora venivano a parcheggiare le loro rare auto di lusso, in un’epoca in cui per la plebe dei motori già un’utilitaria lo era.

Eppure non era tipo da lasciarsi condizionare dall’apparenza, lui sapeva essere severo nei giudizi. A un damerino dal capello impomatato e il foularino da cafone al collo, che sorseggiando l’aperitico seduto al bar gli chiese un giudizio sulla fuoriserie nuova fiammante, Ernesto dopo aver scrutato attentamente il bolide lo gelò con un tagliente “plebeo!”. Sui tavolini di Racca, qualcuno in cuor suo l’abbracciò. In quella Padova del dopoguerra, tra le varie macchiette su piazza, lui era la variante maschile della Gaetana.

Girava per il centro con la tipica andatura conferitagli da piedi a spazzaneve, in bocca un mezzo sigaro in cui l’odore del tabacco era decisamente residuale, rispetto a quello indotto da un plotone di vibrioni di varia natura accumulati durante la permanenza nelle sue tasche. Era decisamente burbero, ma la gente gli voleva bene e non gli negava mai un aiuto, non solo a base di spiccioli.

D’inverno, nei giorni più freddi, alle 3 di pomeriggio si presentava puntuale in vicolo santa Margherita, a due passi da san Francesco, quando apriva il cinema Excelsior. La maschera lo lasciava entrare, naturalmente senza biglietto; lui andava a sedersi in una delle prime file e passava le ore al caldo, concedendosi sonore dormite, fino a che la stessa maschera lo scrollava per dirgli che si chiudeva.

Venne un momento in cui non riusciva più a camminare. Allora gli regalarono un triciclo, con il quale andava su e giù per il centro fino a parcheggiarsi davanti al municipio, scambiandosi con i passanti battute non necessariamente basate su complimenti. Quando la situazione cominciò a degenerare, il Comune intervenne in prima persona, e gli garantì una sistemazione all’Istituto per anziani di via Beato Pellegrino: di giorno

Ernesto continuava a gratificare il centro cittadino con la sua presenza, poi all’imbrunire tornava alla base, dove il personale si sforzava di praticargli un minimo di quella che oggi si chiamerebbe “sanificazione”; poi cenava, non senza lamentarsi della qualità del cibo con la stessa “allure” signorile con cui anni prima aveva dato del plebeo al ricco automobilista. La città l’aveva comunque adottato: al punto che un giorno lo stesso sindaco Ettore Bentsik andò a trovarlo in istituto. E magari, capace che quel giorno Ernesto non gli abbia rifilato qualche critica sui parcheggi… Se lui era una sorta di icona della Padova proletaria, per le strade del centro circolava anche una sua versione nobiliare, al punto da essere stato insignito dalla vox populi dell’appellativo di Conte Rosso: titolo che rappresentava un po’ una sintesi tra il suo portamento nobiliare e non certo le simpatie politiche, ma il colore della capigliatura.

Carico di pacchi misteriosi di cui nessuno ha mai saputo il contenuto, girava per il centro e di notte dormiva sotto i portici di corso Umberto; un giorno un anonimo benefattore gli fece trovare una vecchia poltrona, ma rispettosamente lui rimase sempre ai suoi piedi, rifiutando di insediarvisi.

Confidava nella fortuna: tant’è che ogni settimana consegnava a un passante qualche spicciolo raggranellato con l’elemosina, chiedendogli di andare a giocare per lui la schedina nella tabaccheria di fronte all’improvvisato giaciglio stradale. Vinse una sola volta, ma su tutt’altro fronte. Amava pescare dal ponte Barbarigo, in borgo della Paglia, con una canna rudimentale cui appendeva un pezzo di pane raffermo, regolarmente a vuoto.

Una sera, col buio, un gruppetto di buontemponi prese una barca, arrivò sotto il ponte, sostituì il pane con un’aringa salata, e diede uno strattone alla lenza. Il conte recuperò la preda, e felice come una pasqua scoppiò in un’irrefrenabile risata. Poi si allontanò, gridando felice: “La gò ciapà!”. L’avesse conosciuto Hemingway, magari avrebbe cambiato romanzo, e ne avrebbe fatto il protagonista de “Il vecchio e il fiume”.

(3 – continua)  si ringrazia il gruppo facebook La Vecchia Padova per le foto

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