«Mamma ci salvò dai titini, fuggimmo in Veneto e trovammo la pace che avevamo perso a Pola»

L’odissea familiare di una profuga di Pola, che oggi vive a Solesino, costretta ad abbandonare per sempre la sua terra a soli nove anni 

LA storia

Simona Sardi

Era inverno quando siamo partiti dalla nostra Istria e tirava vento di Bora. Quel giorno mia madre non fece in tempo a legarsi i capelli: chi nasce al mare non li ha mai fermi, perché sono vivi». A parlare è Marisa L. Astich., 84 anni, esule di Pola, Istria. Il nome non è completo per motivi di riservatezza.

Vive a Solesino da oltre sessant'anni, da quando lasciò Stignano, vicino a Pola, insieme alla madre Fosca, classe 1911, a due fratellini piccoli, Giorgio e Antonio, e al padre Guido Sabbatini, autista di camion.

«Partimmo velocemente, con la paura addosso e la certezza che non avremmo più rivisto la nostra casa, gli amici ma soprattutto i profumi dell'Istria. Che mi sono rimasti impressi più forti dei ricordi».

Marisa L. Astich, quell'inverno del 1944, a solo 9 anni, intuisce che qualche cosa di devastante sta per accadere non solo sulla sua famiglia ma anche su parenti e amici sparsi nei paesi vicini.Lo ha ascoltato mentre bisbigliano i suoi parenti e l'unica cosa chiara, sono i nomi di paesi: Visinada, Parenzo, Rovigno, Pola, Barbana, Dignano, Buie, Capodistria. E poi Zara, Fiume, Zagabria. Un elenco interminabile di luoghi e immancabilmente di conoscenti che hanno occhi lucidi e sguardi abbassati.

Sulle coste giuliano dalmate si parla italiano, si lavora, si portano avanti fabbriche, negozi, osterie, alberghi, case che sono sotto la bandiera del tricolore e in parte legati al Leone di San Marco. Poi tutto cambia dopo la sconfitta dell'Italia: da Trieste alla Dalmazia sino aperte le porte a un'ulteriore guerra sanguinosa che cambiò l'identità di quella terra. «La storia di chi abitava là è antica e confusa. Siamo italiani, fieri di esserlo, ma da secoli ci sono mescolamenti con la parte slava e rivendicazioni, odi personali e vendette. Anche matrimoni e amicizie, ma nel profondo restiamo diversi».

Cosa succede quell'inverno del' 44?

«Alle porte avevamo i nazisti e dall'altra gli uomini di Tito. In mezzo la gente normale».

I vecchi e i nuovi protagonisti di questa guerra.

«Avevamo soprattutto paura dei tedeschi, anche se non eravamo di origine ebrea. Dall'altra l'esercito di Tito, che arrivava da tutta l'Europa dell'Est».

Quindi voi eravate come altre famiglie con cognome slavo ma cuore italiano.

«Da 4 generazioni eravamo italiani e questa differenza per nessuno esisteva. Non c'era un muro che divideva ciò che era italiano da ciò che era slavo. Dall'Istria alla Dalmazia, le ricette sono un miscuglio di ingredienti in parte della tradizione austro-ungarica e dall'altra veneta. Fosca ci diceva sempre tosi, ghe' un piatto de pesce dell'Adriadego, del nostro mare e della cucina veneta».

La parte italiana era più forte.

«Era consapevole di essere italiana. Quando abbiamo visto arrivare i nazisti, conoscevamo i loro metodi. Non immaginavamo cosa invece ci avrebbero fatto i titini da lì a poco: all'inizio, nella confusione generale, si sapeva che facevano fuori solo chi aveva collaborato con nazisti e fascisti. Non avevamo ancora capito che la loro non era una guerra militare, ma una pulizia etnica presentata come una pulizia politica».

A Stignano cosa accadde?

«I contadini volevano mandare via i nazisti con i forconi e le falci. I titini dicevano di non reagire: issate bandiera bianca, noi vi proteggeremo. Ma mio padre e mia madre avevano intuito che i conti non tornavano. Troppi i racconti su persone infoibate o annegate».

Per quanto tempo siete rimasti a Stignano?

«Poco dopo l'arrivo dei nazisti fuggimmo in campagna a San Pietro a Selve, in una cascina umida e isolata con altri bambini. Poi un pomeriggio arrivarono i titini. Mia madre ci nascose, papà venne prelevato con la scusa che avevano bisogno di un camionista per la zona mineraria dell'Arsia». Poi il padre Guido Battistini venne rilasciato e tutta la famiglia ritornò a Stignano, decidendo di lasciare l'Istria per sempre. Quando Fosca Astich era ancora in vita, raccontò che l'ultimo gesto rivolto alla sua amata terra fu raccogliere 2-3 gioielli di famiglia e scrivere su di un pezzo di carta alcuni nomi decisivi legati alle vicende del momento. Chiuso tutto in un fazzoletto, lo nascose in una pietra segreta del muro al confine della sua proprietà, vicino al mare.

Cosa ricorda della partenza?

«Due cappotti pesanti e alcuni documenti. Abbiamo anticipato il grande esodo di Pola del '46: alcune famiglie erano già scappate, ma la convinzione generale era che sarebbero stati colpiti solo nazisti e fascisti».

È la prima volta che per i titini usa la parola partigiani.

«Erano bande di selvaggi e non un esercito vero e proprio. Erano in alcuni casi, il nostro vicino di casa o il parente ma tanti erano anche baul affamati delle campagne interne».

Alla caduta di Mussolini, l'esercito italiano è allo sbando: molti soldati finiscono nelle fila dei titini, che in breve formano un esercito di partigiani vero e proprio, anche se poco coeso. Molto usano la guerra per appropriarsi dei beni italiani.

Ha ricordi del viaggio?

«Un treno gelido che ci porta a Padova dai nonni, in via Cassan, perché mio padre aveva parenti in città. È stato un periodo angosciante nella città bombardata; mia nonna disprezzava mia madre, diceva che era una ciava. Ma Fosca era italiana: aveva solo i capelli chiari come tante donne istriane, ma parlava 4 lingue».

L'intera famiglia è etichettata come indesiderata. Nel giro di qualche mese si trasferisce a Solesino. «Lì abbiamo capito che eravamo entrati nel dopoguerra almeno in questa parte d'Italia, a differenza dell'altra, dove invece era in corso una vera e propria mattanza umana. Non avevamo una casa, ma quattro mura senza pavimento e dormivamo su letti provvisori vicino a fascine di torba per stare più caldi. Mia madre faceva mille lavori per farci studiare e le volevano tutti un gran bene. Un anno eravamo così poveri che mia madre riuscì a farci l'albero di natale con un ramo trovato per strada. Noi bimbi chiedevamo i regali, lei rispose: gavé gli oci? gavé le mani? gavé le gambette? Bene, siete fortunati».

Qualcuno vi ha mai chiesto se eravate profughi ?

«Eravamo tutti uguali in quel posto avvolto dalla nebbia della bassa padovana: tutti con morti alle spalle e tutti con una gran voglia di riscatto. Mia madre è stata aiutata e ha aiutato sempre. Credo che siamo stati miracolati se penso alla mia gente passata dai campi di accoglienza di Padriciano, Ferrara, Laterina, Udine che impazziva per il dolore o moriva per le condizioni disumane».

Avete conosciuto altri profughi a Solesino?

«Solo una bella coppia di nobili in rovina dall'Istria. Lei e la mamma si raccontavano de tuto, delle mule, delle gonne colorate che amavano alla follia, l'unica cosa che potevano ricordare senza soffrire».

Fosca Astich. è morta a 100 anni. È tornata a Stignano due volte negli anni '90 per rivendicare i suoi beni in tribunale a Pola, oramai croata . «Il magistrato le ha chiesto cosa era andata a fare, visto che a tradire e ad abbandonare gli istriani era stato il governo italiano. Poi le ha chiesto: come ha pagato l'Italia il debito di guerra se non con le case e le terre vostre»?

Voi avete mai parlato di pulizia etnica in famiglia?

«Quando in Jugoslavia è riesplosa la guerra, nel 1991: uno scenario già visto e vissuto. Lo stesso odio etnico che annientava legami e generazioni di giovani e vecchi». —

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