Mestrino progettata dal console Mestrius Goti, Unni ed Eruli passano e devastano

Intorno alla metà del Duecento viene eretta la “Torresina” che Sant’Antonio difende miracolosamente da Ezzelino  
BELLUCO-FOTOPIRAN-MESTRINO-SR 11
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FRANCESCO JORI

Non c’è traccia, in epoca moderna, di urbanisti che per essersi inventati una città siano stati ricompensati col darle il proprio nome. Una soddisfazione del genere, sia pure limitata a un piccolo centro, se l’è potuta concedere Mestrius Florus, console supplente nella Roma dominata dall’imperatore Vespasiano (figlio di famiglia contadina salito al potere nel 70 dopo Cristo), esperto di centuriazione. Si tratta per l’appunto di un intervento urbanistico messo a punto già da decenni, sotto Augusto, e consistente in un’operazione fondiaria che suddivide e assegna terreni coltivabili. È a lui che, avendo già maturato concreti titoli in materia, viene affidato il compito di sistemare quell’area a ovest di Padova; e provvede evidentemente con diligenza e perizia, visto che lascia attaccato il suo nome al paese fino ai giorni nostri.



Il guaio di Mestrino è che si trova su una direttrice strategica degli spostamenti, e per giunta è a due passi da una metropoli dell’epoca quale è Padova. Per cui, quando l’impero romano si spegne sotto le spallate dei barbari, di qui passano un po’ tutti: Goti, Unni, Eruli, Ostrogoti, fino ai Longobardi che, guidati da Agilulfo, arrivano in zona nel 589. E tutti lasciano la loro firma: ad esempio distruggendo le fortificazioni costruite nell’odierna frazione di Arlesega. Non bastassero gli uomini, ci si mette pure la natura: nel IV secolo con un devastante terremoto che colpisce larga parte dell’Italia Settentrionale e rade al suolo quel che c’è della Mestrino dell’epoca; nel VI secolo con una serie di stravolgimenti climatici provocando una pesante carestia; qualche decennio più tardi con lo straripamento di numerosi fiumi, tra cui il Bacchiglione il cui corso attraversa il territorio del paese. E quando i solerti monaci benedettini, “verdi” ante-litteram che l’ecologia e la tutela dell’ambiente la fanno con le braccia e non con la bocca bonificando vaste distese di terreni, risistemano la zona, ecco che cominciano gli scontri tra rissose padovani e vicentini.



In uno di questi match pare che i secondi, sconfitti dai primi, abbiano lasciato sul campo il loro vessillo, sul quale campeggiava un asino, e recuperato dalla gente del posto che l’avrebbe appeso ed esibito in paese, in segno di spregio: episodio che secoli dopo, nel Seicento, avrebbe ispirato lo scrittore padovano Carlo Dottori per la stesura di un poema eroicomico intitolato “L’Asino”. In queste turbolente vicende si inserisce un capitolo associato a una sorta di leggenda metropolitana.



Tutto parte da quella buona lana di Ezzelino, personaggio dotato di credenziali imperiali (è genero dell’imperatore Federico II) ma soprattutto di ambizioni espansionistiche e di voglia di menare le mani: dalla sua base posta tra il Bassanese e l’Alta Padovana, scende fino in città, e in quel percorso si imbatte nella malcapitata Mestrino. Siamo attorno alla metà del Duecento: gli abitanti corrono ai ripari facendo costruire una fortificazione con tanto di torre (detta “la Torresina”), che viene presa d’assalto dalle truppe ezzeliniane. Mentre il complesso viene raso al suolo, si salva la torre, per un intervento miracoloso attribuito a Sant’Antonio, che in quell’epoca è di casa nel Padovano.

Racconta la leggenda che il Santo, di ritorno da Verona dov’è andato a predicare, sia capitato a Mestrino stanco e a tarda ora, trovando ospitalità proprio nella torre, poche ore prima dell’assalto del nemico: la sua presenza avrebbe così fatto il miracolo di risparmiare dalla distruzione quel pezzo di edificio. —

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