Mitico Novecento quando Trieste era tutto il mondo

Al Magazzino delle Idee l’arte diventa testimone della stagione più fulgida della città giuliana
Di Virginia Baradel

di Virginia Baradel

C’è stato un tempo in cui l’Europa era un autentico mito moderno che faceva dire a Gino Parin, pittore triestino, “il mondo è là”. Era un orizzonte così ricco e magnetico da indurre Trieste a coltivare, di rimessa, una speciale italianità, combinata ad un moderato spirito cosmopolita. Slapater infatti scriveva, nelle Lettere triestine pubblicate su “La Voce”, di ritenerla affetta da “una svogliatezza tentennante e pigra”, incapace di trasformare in vantaggio il contatto con le altre civiltà: “Dobbiamo combattere la ripugnanza e convincerci che Trieste è italiana in modo diverso dalla altre città italiane”.

Era il 1909. In quegli anni l’arte viaggiava su un crinale tra gli echi delle prime avanguardie, il simbolismo d’oltralpe e il sintetismo bretone: un magnifico melting pot che infervorava gli artisti immersi nel quadro delle metamorfosi dell’arte, affrontato con visite alle esposizioni, viaggi, soggiorni, riviste, scambi e animate discussioni. Trieste era un polo gravido di sintomi e suggestioni, di linee d’approdo e di partenza, legata a Vienna, a Monaco, Budapest, ma anche a Firenze, Venezia e Parigi. Dunque all’oggi, in un momento in cui si scava a fondo nel Novecento in ogni centro della penisola, è quanto mai opportuna e persino esemplare la mostra “Il mondo è là. Arte moderna a Trieste 1910-1941”, allestita al Magazzino delle Idee sino al 31 gennaio, promossa dalla Provincia di Trieste, a cura di Patrizia Fasolato, Enrico Lucchese e Lorenzo Nuovo. Sedici sezioni per raccontare quel che accadde nell’arte triestina in quegli anni, compresa la parte avuta da critici d’arte, mostre e collezioni.

Apre il percorso un ottimo dipinto borghese: “Conversazione in un interno” di Giuseppe Barison, giusto per dire che sin qui si arriva con l’evoluzionismo ottocentesco, e subito dopo compare l’esultanza cromatica di Ugo Flumiani, la pittura a fiocco e profilo marcato di Piero Marussig, le caricature smaglianti di Carlo Michelstaedter (si, proprio il giovane filosofo che molto amava dipingere) e Vito Timmel a dichiarare la morte avvenuta del naturalismo in ogni sua forma.

Il divisionismo mette a confronto due ritratti, Carlo Bolaffio di Vittorio Bolaffio e il Dottor Gopcevich (che era triestino anche se viveva a Padova e il pittore lo ritrasse a Parigi) di Umberto Boccioni; il sintetismo simbolista affianca due magici “notturni” di Piero Lucano e Umberto Moggioli. I critici Benco, De Tuoni, Malabotta, Scheiwiller compaiono ritratti rispettivamente da Arturo Rietti, Enrico Fonda, da un impetuoso Adolfo Levier e una sottile Leonor Fini. Il dopoguerra viaggia tra futurismi e ritorni all’ordine figurativo; in mostra si possono ammirare opere di Augusto Cernigoj e Luigi Spazzapan come di Veno Pillon e di Piero Marussig, quest’ultimo in entrata tra i magnifici sette del Novecento di Margherita Sarfatti. Nella stessa orbita gravitano i filo-fiorentini Soffici, Rosai, Carrà, Funi, Casorati.

Grande sorpresa per i visitatori non specialisti, sono alcune varianti stilistiche del tutto particolari: il surrealismo trasognato di Giorgio Carmelich, il livido e fuso postimpressionismo del “giuliano a Parigi” Enrico Fonda, la silente Nuova oggettività di Veno Pilon e le impressionanti visioni di Arturo Nathan che carica il Realismo magico in senso mistico e simbolista. Non mancano i confronti tra scultori di rango, locali e non, come Attilio Selva, Marcello Mascherini, Ugo Carà, Libero Andreotti e Arturo Martini.

Infine il capitolo “nostalgia” che a Trieste si carica dell’onda lunga del finis austrie e che prende i tratti del “Palombaro” di Sbisà, dell’ “Estuario illuminato dalla luna” di Nathan, dell’ “Autoritratto contro il mare” nel quadro appeso di spalle di Mario Lannes, della “Sirenetta” di Santo Bidoli.

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