Monet, l’evoluzione dello sguardo

Alla Gam di Torino i capolavori dalle collezioni del Musée d’Orsay

Nell’introduzione al catalogo della mostra su “Monet. Dalle collezioni del Musée d’Orsay” in corso alla Gam di Torino fino al 31 gennaio, il direttore del museo francese Guy Cogeval, chiude con queste parole: «Vorrei chiedere al pubblico di visitare questa mostra con lo sguardo che hanno i bambini, quell’ingenuità indispensabile per scoprire un’arte che deve impressionare e allo stesso tempo edificare».

Nessun idioma artistico quanto quello impressionista, si presta infatti alla doppia emozione del trasporto immediato e della riflessione sull’arte. E nessun impressionista come Monet, padre e padrone dell’Impressionismo, consente questa esperienza che scorre dalla prima mostra dei dissidenti del Salon, organizzata nello studio del fotografo Nadar nel 1874, al pastoso crepitio d’arcobaleno dei fiori e delle ninfee che Monet coltivava nel giardino Giverny, suo incantevole buen retiro il cui rigoglioso disfacimento pittorico scavalca il secolo XIX.

La mostra e il catalogo Skira, consentono di cogliere perfettamente l’evoluzione di Monet che inizia con i dipinti di paesaggi al vero dei primi anni sessanta influenzati dalla Scuola di Barbizon, la prima avventura di artisti che escono dall’ accademia e dall’atelier per immergersi corpo e sguardo nella natura. Continua con le diverse esperienze di espansione della luce che si sprigiona dall’accostamento dei tocchi di colore, sino ad arrivare alle cattedrali e ai parlamenti di Londra la cui vista “disturbata” o per eccesso di vicinanza o per “effetto di sole nella nebbia”, come recita il sottotitolo di un “Parlamento di Londra”, finisce col tramutare la veduta in visione empatica. A tale stagione appartengono anche le vedute di Venezia dove il baluginare dei tocchi tende a fondersi in una pasta luminosa che le rende simili ad apparizioni. “Donne in giardino” e il grande frammento centrale de “La colazione sull’erba” (1865 -1866) sono già fuori dai confini di una ragionevole immersione nella natura, sono agili, abbaglianti, di una luminosità liquida.

Anche i ritratti palpitano di una luce che sta sgusciando precipitosamente fuori dal dettaglio. Pochi anni ed è la frantumazione del tocco, è l’Impressionismo, la materia cromatica che infrange ogni legame con disegno e prospettiva e fa da sé. Siamo all’assolato en plein air della “Donna con parasole”, della “Regata ad Argenteuil” dove le vele delle barche e le tegole della casa si riflettono in acqua rompendosi in tratti di colore puro che galleggia. Anche “I tacchini” sono fatti di quella pasta: la pittura solleva, picchietta e rischiara le piume bianche, arrossa i bargigli, infoltisce l’erba.

Lo sguardo degli impressionisti applica le nozioni dell’ottica all’effusione della natura. La tavolozza di Monet è come una cornucopia che rende cremosa la neve e carnoso il cielo.

In contemporanea alla mostra è uscito un libro molto interessante, sempre per i tipi di Skira, di Fabrizio D’Amico “Sguardi su Monet” che usa la sua stessa modalità di sguardo avido e riflessivo per ripercorre la vita e la fortuna del padre dell’Impressionismo. La mostra di Torino, con più di quaranta capolavori del museo d’Orsay, invita a questa riscoperta, incantata e ragionata allo stesso tempo.

Virginia Baradel

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