Morto Luciano Salvadego, addio all’anima della trattoria "al Pero"

All’anagrafe si chiamava Gugliemo: si è spento lunedì notte a 80 anni. Per quasi dieci lustri ha gestito col fratello lo storico ristorante di via Dante

PADOVA. Si è spento nella notte tra domenica e lunedì Guglielmo Salvadego che con il fratello Bruno aveva gestito dal 1946 al 1994 la «Trattoria al Pero» di via Dante. Guglielmo aveva 80 anni. Nessuno, a parte i famigliari e l’anagrafe, lo conosceva con questo nome, per tutti, camerieri e clienti, era Luciano, nome più semplice e luminoso rispetto all’ispido, nordico Guglielmo; qualcuno l’aveva battezzato Luciano e non si era più tolto il nome di dosso.

Bruno e Luciano cominciano a lavorare in trattoria, agli ordini dello zio Valentino Toninato e della zia Ida, che hanno ancora i calzoni corti, tra i 12 e i 14 anni, «do tosati» che fanno fatica girare il mestolo nel pentolone della zuppa.

Ma sono loro che faranno del locale un vero e proprio focolare sociale frequentato da attori, uomini di cultura: un piccolo esercito di artisti nella Padova dei movimenti, uomini politici, (in pratica tutti i sindaci da Crescente a Zanonato si sono seduti alla tavola dei Salvadego), barboni (perché un piatto di minestra non si nega a nessuno). «Sì, barboni, pori-cani – dice Gioacchino Bragato, pittore, cuoco del Pero dal 1956 al 1994 che dà colore a fondine di tagliatelle al sugo e abbronza alla fiamma cotechini con le verze – ma anche premi Nobel». E, infatti, dopo un convegno alla Gran Guardia si precipitano in trattoria Dario Fo con Franca Rame, i mimi di Lecoq, lo scultore Donato Sartori. C’è quasi un’aria parigina nel bistrot di via Dante che si veste di cultura europea.

«Ricordo anche – dice Bragato che da cuoco è diventato maestro di cerimonie e addetto alla rimembranze per tutto ciò che riguarda la gloriosa osteria, un’icona per la nostra città – il convegno in Salone sul caffè organizzato da Lionello Puppi. Per una settimana servimmo piatti al caffè: gnocchi alla polvere di caffè, spaghetti con il caffè sparso come fosse bottarga o “limatura” di tartufo».

Ospiti del Pero personaggi come Strehler e Giorgio Gaber, sempre solo, sempre vestito di nero, ma capace di incantevoli sorrisi e di sulfuree ironie, campioni dello sport come Gino Bartali, magnifici rettori, brillanti professori universitari. Tutti a mangiare testina di vitello, trippe al sugo, corradina (polmone), fagioli con le cotiche, piatti che nel secolo dell’elettronica nessun fa più perché la nuova scienza si sposa meglio con le merendine che con le fette di salame. Amarcord per Luciano: la trattoria al Pero, prese il nome da un «peràro», un albero di pere cresciuto come per magia tra via Santa Lucia e via Dante; locale antico fondato nel 1804, ha conservato tradizione e poesia fino al 1994, l’anno del cambio di gestione che lo ha «normalizzato» (prezzi più alti, cibi meno rustici).

Recentemente dalle due entrate sono state rimosse le insegne della trattoria, resta poco del locale che per più di due secoli ha servito la città. Un ricordo di Luciano, di Bruno e della città materna di una volta descritta da Diego Valeri resta nel segnavia sopra il vecchio forno abbandonato: «Via Santa Lucia già del Pero». Chissà se ricorda l’albero o la trattoria.

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