Nella Fossa dei leoni all’Appiani, «Mussa» faceva il capo ultrà per il Padova di Rocco

Macchiette padovane: un armadio umano, sempre vestito con una maglietta a righe: l’ombrello, le corna arbitrali e il suo alter ego “daspato”: l’Innominato 
Nereo Rocco ritratto da Elio Armano e l'Appiani stracolmo per Padova-Juventus
Nereo Rocco ritratto da Elio Armano e l'Appiani stracolmo per Padova-Juventus

PADOVA. Una curva sud concentrata in un solo individuo: per intensità di passione calcistica, ma pure per corporatura. Se in quella “fossa dei leoni” che era lo stadio Appiani il Padova si identificava in Nereo Rocco e nei suoi gladiatori, sugli spalti portava un solo nome; anzi, un soprannome perché della sua vera anagrafe non v’è contezza: “Mussa”. E se il “paròn” era l’anima della squadra, lui lo era dei tifosi.

Un armadio umano, sempre vestito con una maglietta a righe orizzontali bianche e azzurre: una specie di Gigi Marzullo ante litteram, però nella variante popolana. Un proletario del pallone, che per il Padova e il suo allenatore, lungo i novanta minuti della gara, dava davvero tutto se stesso: a partire dai polmoni.

Era una componente fissa delle partite casalinghe della domenica, quando il calcio non era ancora uno spezzatino a misura di Tv, e si giocava tutti lo stesso giorno e la stessa ora.

Mussa era tra i primi a presentarsi allo stadio, e il fatto che entrasse senza biglietto era un assioma; in realtà tutti gli altri spettatori avrebbero dovuto pagare un supplemento per vedere lui in azione. Non aveva bandiere, striscioni, gagliardetti: il suo corredo da tifoso consisteva in un ombrello arrotolato, che portava sempre con sé, sole pioggia o neve che Dio mandasse in terra. Non un portafortuna o un amuleto, ma uno strumento di lavoro: quella era chiamata “la fossa dei leoni” non solo per via del calore del tifo, ma anche perché le reti che delimitavano il terreno di gioco erano immediatamente a ridosso degli spalti.

E quando un giocatore della squadra avversaria veniva a effettuare una rimessa laterale, Mussa piombava su di lui da tergo, e brandendo l’ombrello come una Durlindana lo infilzava nelle natiche. Il suo impegno era peraltro a tempo assolutamente pieno, da inizio a fine gara.

Correva senza sosta su e giù per le gradinate, il più vicino possibile al campo, ingiuriando l’arbitro ogni volta che fischiava una punizione contro il Padova o che adottava una decisione contraria alla squadra di casa.

Una leggenda popolare, peraltro non verificata, attribuisce a lui la micidiale battuta scagliata contro uno dei più famosi direttori di gara dell’epoca, Jonni di Macerata: “Arbitro, te gà più corna ti che un cestèo de bòvoi!”. Il suo idolo era ovviamente Nereo Rocco, peraltro adottato collettivamente dai padovani nonostante le sue origini triestine, con radici asburgiche.

Il pre-partita domenicale rientrava in un autentico rito laico del dì di festa: alla mattina allenatore e giocatori compatti a messa al Santo, poi trasferimento da Cavalca per il pranzo, quindi rotta sull’Appiani. Il tutto rigorosamente a piedi, assorbendo il pulitissimo doping del tifo della città, in modo da arrivare allo stadio caricati a dovere.



In quella Padova, Rocco era diventato a sua volta una macchietta: nel tempo è venuta lievitando una sorta di poema orale delle sue battute, trasfigurate nel tempo. Fulminante quella relativa all’incontro tra lui e Boniperti, all’epoca calciatore, in un Padova-Juventus: incrociando il mister all’uscita dagli spogliatoi “Marisa”, come i maligni l’avevano soprannominato per via dei boccoli biondi, gli strinse la mano dicendogli: “Vinca il migliore!”. E Nereo, a stretto giro di replica: “Ciò, speremo de no”.

Feroce quanto celebre, ma non documentata, la tattica spiegata ai suoi giocatori prima di una gara: “Tuto quelo che se movessi su l’erba, tirèghe. Se po’ fussi el balòn, pazienza”.

Quelle carogne dei suoi giocatori, quando arrivava uno nuovo, gli dicevano: “Mi raccomando, a Rocco devi dare del mister, perché lui ci tiene”. Il malcapitato alla prima occasione ovviamente si adeguava. E l’allenatore, con tono tra il burbero e l’incazzato: “Ma quale mister! Muso da mona, mi son el sior Rocco”.

In quei tempi di un calcio rampante, c’era a Padova anche una sorta di anti-Mussa; e pure di lui non v’è traccia del nome. Bastava e avanzava l’etichetta con cui tutti lo conoscevano: l’Innominato. Un portasfiga king-size, che induceva tutti a toccarsi ogni volta che avevano la disgrazia di incontrarlo.

Un umanista indigeno aveva coniato una formula rituale in latino che pronunciava a mezza voce nell’incrociarlo: “Terque, quaterque testicolis tactis”. E subito procedeva all’operazione scaramantica. Una domenica che si presentò di persona all’Appiani, il Padova perse di brutto per 6 a 1.

La sera stessa, un gruppo di tifosi sottoscrisse una lettera aperta in cui si formulava la richiesta di sancire nei suoi confronti un vero e proprio daspo urbano ante-litteram: mai più nello stadio, a vita.

(5 – continua)


 

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