Nino, per tutti "Corni freschi": il robivecchi tra "strasse" e ossi

La nostra galleria di personaggi della Padova di una volta: un pioniere del riciclo, inconsapevole ma a suo modo esemplare 

PADOVA. Un pioniere del riciclo: inconsapevole, ma esemplare. Quando la raccolta differenziata era ancora di là da venire, e le scoasse appartenevano a una sola indistinta famiglia, lui pilotava con ammirevole disinvoltura per le vie del centro di Padova il proprio triciclo con cassone anteriore. E col timbro squillante di un piccolo Pavarotti di strada, faceva echeggiare una sinfonia presto divenuta celebre, anche perché unico brano del suo repertorio: “Strasse – ossi – fero veciooo…”. Cui subito seguiva, durante la stagione estiva, un memorabile assolo con voce da baritono: “Corni freschi da Rosapineta!”. E quel suo piccolo teatro ambulante disponeva pure di tanto di inconfondibile scenografia: un paio di maestose corna di bue fissate sul davanti, a fendere l’aria, pedalata dietro pedalata, come una polena che voleva rappresentare un nitido memento per i mariti rimasti a casa a lavorare, mentre le rispettive signore se la spassavano sul bagnasciuga di quella piccola Saint-Tropez dei poveri che era allora la spiaggia polesana.



Lui disponeva di un nome di battesimo, Riccardo, e pure di un soprannome, Nino. Ma per la “vox populi” era semplicemente Corni: identificativo che si era guadagnato sul campo; e del quale, lungi dall’adontarsene, andava fiero. Anche perché era convinto che qualcosa di molto peggio ci fosse; e un giorno di luglio sotto la canicola, bordeggiando col suo triciclo per le piazze, non esitò a proclamarlo con voce stentorea. “Va a lavorare!”, gli gridò da una finestra un anonimo travet dell’esistenza, del tutto orfano di fantasia. Lui, senza scomporsi, gli replicò: “Dime beco, ma non sta mandarme a lavorare!”. Peraltro, gli va dato atto che una sua attività l’esercitava, con quotidiana e diligente cadenza: robivecchi, si direbbe in italiano; strasse-ossi-fero vecio, nel vangelo laico secondo Corni. Che appunto recuperava dalle case gli scarti di ogni genere, dai più piccoli ai più ingombranti, senza tutte le complicazioni odierne; e provvedeva poi a smaltirli, guadagnandosi da vivere dignitosamente.



A ben vedere, era un antesignano ante-litteram di quella razza di piccoli imprenditori del Nordest, insuperabili esponenti del fai-da-te, ai quali un paio di decenni dopo stuoli di economisti, sociologi, sedicenti esperti, financo romanzieri, avrebbero dedicato un Niagara di pagine, non di rado incolpevoli vittime cartacee dell’immotivato sterminio di vasti pioppeti, considerando il rapporto quantità (elevata) – qualità (scadente). Corni peraltro non era il solo, in quella Padova che si stava scrollando di dosso le macerie di due guerre mondiali in appena trent’anni: per le vie del centro ci si poteva imbattere in altri micro-campioni del mettersi in proprio. Esemplare il caso di “Stecadenti”, come tutti lo chiamavano abitualmente, al punto che il suo vero nome era caduto nel dimenticatoio; e magari se l’era scordato lui stesso. Volendo adottare la classificazione ufficiale dei codici Ateco dell’Istat relativi ai prodotti e attività manifatturiere, lo si sarebbe dovuto inquadrare nel comparto “legno e affini”.

Operava di norma in piazza Capitaniato, sotto la “scavessà”, il luogo dove già nel Quattrocento funzionava un mercatino dell’usato, tra cui vestiti e pezzi di stoffa detti “scavessaùre”. E l’azienda di cui era titolare, se la portava letteralmente appresso, visto che consisteva in una cassetta di legno legata al collo con un robusto spago. Su di essa era stoccata l’intera sua produzione, consistente in stuzzicadenti nella duplice versione in pacchetto per i ceti benestanti, e sciolti per le fasce basse: magari da utilizzare al volo e in versione usa-e-getta per accaparrarsi uno “spunciòn” volante in qualche osteria delle piazze. Poteva contare su una clientela affezionata, parte della quale magari acquistava il prodotto anche se non ne aveva per nulla bisogno, un po’ come si fa oggi con calzini o fazzoletti di carta dagli extracomunitari. Per dire il vero ebbe anche qualche incidente di percorso: come il giorno in cui un passante che voleva fare lo spiritoso gli chiese se si trattasse di materiale usato e rimesso a nuovo. Stecadenti lo fissò con severo cipiglio, poi dando mostra di sedimenti culturali non insignificanti gli sbattè sul muso un micidiale “taci, giovenco!”. Dicono che l’improvvisato interlocutore incassò in silenzio, forse folgorato da cotanta ingiuria. O forse, semplicemente, si precipitò a casa per cercare sul vocabolario cosa diavolo volesse significare quell’epiteto.

(4 – continua)


 

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