Padova, 50 anni dopo il ritrovo dei maturi del '68 del Tito Livio

PADOVA. In America ammazzavano Bob Kennedy, a Parigi l’onda lunga del Maggio scuoteva l’Eliseo, a Valle Giulia la polizia manganellava gli studenti romani. In quell’estate del 1968 tutto sembrava sul punto di cambiare ma su di loro, i liceali del classico Tito Livio che oggi si ritroveranno in 140 nell’aula magna dell’istituto per un amarcord multimediale, incombeva lo spauracchio della maturità. L’ultima dell’eredità Gentile: esami scritti e orali in tutte le materie del triennio. «Quelle versioni di latino e greco ci hanno tolto il sonno, per salvare la pelle all’esame bisognava sgobbare», ricordano – con malcelata nostalgia – i veterani, artefici dell’iniziativa.

Sono Francesco Ambrosio (docente universitario e anestesista), Otello Baseggio (per decenni anima e cuore delle librerie Feltrinelli), Carlo Crivellaro (pediatra), Piero Brunello (imprenditore), Paola Lionello e Piero Angi (medici). Strade diverse, memoria condivisa: «Quella Padova era perbenista, ordinata, devota, piuttosto grigia. E il Livio ne rappresentava l’istituto d’élite, esigente e rigoroso pur se discretamente interclassista. Professori rinomati, come il grecista Erminio Troilo, e un preside cultore di Dante, Emilio Menegazzo. Molti di noi portavano giacca e cravatta, anche in gita. Le ragazze invece indossavano grembiuli neri. Flirt? Macché, ingressi separati, prof e genitori ci tenevano d’occhio...».

Eppure, nel torpore provinciale qualcosa covava: «Capitava di discutere nell’intervallo, o dopo le lezioni. Leggevamo i giornali, qualcuno faceva politica: c’erano i comunisti della Fgci e quelli del fronte della gioventù che facevano il saluto romano», le parole di Baseggio. «La morte di Tenco, l’anno prima, ci colpì moltissimo. E poco dopo arrivò lo sciopero contro la riforma dell’istruzione del ministro padovano della Dc Luigi Gui. Il nostro liceo aderì in massa, preside e docenti non ci ostacolarono. Forse intravedevano nella protesta una tappa della nostra crescita. La gente, invece, scuoteva la testa incredula: “Sti tosi i voe a libertà! ? ”».

Rispuntano volantini ciclostilati. Alcuni redatti in punta di penna – «Dissentiamo da una Scuola selettiva per lo più fondata una discriminazione censitaria» – altri fiammeggianti: «L’esame, le interrogazioni, il voto: violenza commessa sullo studente da una società sfruttatrice». Cittadini e campagnoli, sgobboni e goliardi-ribelli. Con i mercatini del libro usato (accessibile a tutte le tasche), i complessini rock e le prime assemblee all’Antonianum, sotto lo sguardo sapiente dei gesuiti.

Cosa rimane infine? «È stata l’esperienza formativa migliore della nostra vita», la risposta corale «ben oltre l’università e le tappe successive. Abbiamo partecipato ad una comunità di studio coesa, con legami destinati a durare. Dove gli insegnanti, vincolati ad un programma nozionista, ci caricavano di compiti, non lesinavano i 4 eppure tifavano per noi, considerando ogni bocciatura una sconfitta personale. Clima plumbeo? Anche no, quando c’era lezione su Boccaccio lazzi e risate si sprecavano».

Morale della favola? «Il Tito Livio ci ha fornito gli strumenti critici per affrontare la vita, oggi a prevalere sono i modelli d’accatto». Formidabili quegli anni, chioserebbe qualcuno. —
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