Padova, cuore bionico in cinque anni

Il progetto del professor Gerosa: "Meccanico e umano è la nuova frontiera della cardiochirurgia"

PADOVA. La nuova frontiera della ricerca in ambito cardiochirurgico punta alla realizzazione di un cuore artificiale totale, ed è il professor Gino Gerosa, 60 anni, con la sua équipe del Centro di Cardiochirurgia “Vincenzo Gallucci” dell’Azienda ospedaliera-Università di Padova a dare gambe e testa all’ambizioso progetto. Allo studio c’è un cuore bionico, che alle componenti meccaniche unisce quella biologica data dai tessuti di rivestimento. Un cuore destinato a essere impiantato in via permanente nel paziente.

Padova, l'equipe del professor Gerosa lavora a un nuovo cuore artificiale


Professore perché oggi c’è bisogno di un cuore artificiale totale?

«Lo scompenso cardiaco terminale è in forte aumento e l’unica soluzione al momento è il trapianto. Ma per questo servono molti organi, il cui numero si è molto ridotto proporzionalmente alla riduzione delle morti cerebrali post traumatiche. Quelle causate da incidente, per intenderci. I dispositivi di sicurezza hanno - e per fortuna - ridotto i traumi e le morti soprattutto nei giovanissimi. Infatti, se una volta l’età prevalente dei donatori di cuore era sui 18 anni, oggi è sopra i 55».

Come si fa fronte oggi a questa situazione?

«In attesa del trapianto abbiamo delle soluzioni-ponte, come il Vad, ovvero una pompa che assicura al cuore, che rimane al suo posto, l’assistenza ventricolare. E abbiamo un cuore artificiale meccanico, il Sincardia, sviluppato negli Anni Cinquanta e che per primi in Italia abbiamo impianto noi a Padova nel 2007. Oltre a essere una soluzione temporanea in attesa del trapianto, questo cuore artificiale non garantisce la qualità di vita del paziente: ha infatti una ingombrante parte esterna, una sorta di zainetto con un compressore piuttosto rumoroso».

Quali sono le nuove frontiere della ricerca in questo campo?

«In attesa del marchio Ce e senza ancora un’applicazione clinica completa è il cuore artificiale della francese Carmat, elettrico e quindi meno rumoroso ma ancora molto grande, tanto che risulta impiantabile su meno del 75 per cento degli uomini e addirittura meno del 15 per cento delle donne».

È un ambito che coinvolge molti ricercatori?

«Ci sono diversi gruppi di ricerca: al cuore artificiale totale stanno lavorando negli Stati Uniti, nell’Università dell’Oregon, il Politecnico di Zurigo, e poi tedeschi e giapponesi. Ma ci siamo anche noi di Padova».

E a che punto è il vostro progetto?

«Abbiamo già messo a punto e brevettato l’attuatore, ovvero il principio meccanico alla base del cuore artificiale per il cui rivestimento saranno utilizzati i tessuti prodotti grazie alla nostra tecnologia della Medicina rigenerativa, assicurando così la biocompatibilità del cuore, che a questo punto possiamo definire bionico».

Cosa manca perché il cuore bionico sia pronto?

«Dobbiamo costruire un motore elettrico lineare miniaturizzato per movimentare l’attuatore, poi mancano i sensori e, diciamo, la “carrozzeria” attorno e un innovativo sistema di alimentazione. Inoltre, una volta realizzato il cuore bionico, sarà necessaria una fase di sperimentazione sugli animali».

È solo una questione di tempo?

«Di tempo certamente, ma anche di finanziamenti. L’attuatore siamo riusciti a svilupparlo grazie al finanziamento di un milione di euro della Fondazione Cariparo. Ma la parte più dispendiosa è adesso. Servono almeno 50 milioni e ritengo che in cinque anni potremmo raggiungere il traguardo».

La cifra è enorme per la Ricerca in Italia, inoltre c’è anche l’Università dell’Oregon che è a buon punto nella realizzazione di un cuore simile e negli Usa i finanziamenti sono più generosi.

«Tutto vero, ma noi a Padova abbiamo altre carte da giocare. Intanto la biocompatibilità del nostro cuore bionico non è eguagliabile dal progetto statunitense, e poi, proprio perché siamo abituati a finanziamenti più magri, abbiamo imparato a massimizzare le risorse. La cifra a cui puntiamo è solo relativamente importante, nel senso che la fila per arrivare alla “cassa” è lunga. Ma in questo progetto crediamo e siamo ottimisti, necessariamente. Se non la pensassimo così non potremmo essere i pionieri che siamo nella Cardiochirurgia».

Ottimismo a parte, come ritiene possibile reperire una somma così alta?

«Siamo “attenzionati” da diversi fondi pubblici e privati. Credo che una partnership pubblico-privata sarebbe l’ideale, sia per il reperimento delle somme, sia per suggellare in qualche modo la credibilità del progetto».

Il cuore bionico verrebbe impiantato in via definitiva nel paziente?

«Esattamente, sarebbe una soluzione permanente alternativa al trapianto di organo. E garantirebbe un’ottima qualità di vita perché è silenzioso. Inoltre stiamo studiano un sistema di ricarica per il motore elettrico che non richieda i fili da collegare a una fonte di corrente, ma per la quale sia sufficiente il contatto della cute con una piccola superficie “ricaricante”».

Quali prospettive aprirebbe il cuore bionico?

«Oggi l’attesa per un trapianto di cuore supera l’anno e il 30 per cento dei trapianti avviene su pazienti ospedalizzati. In Italia c’è una lista di attesa di almeno 800 pazienti e i trapianti che si riescono a fare mediamente sono circa 260 all’anno. Con il cuore bionico potremo dare una risposta più veloce a molte persone che ne hanno bisogno».

Sul fronte dei trapianti ci sono innovazioni di rilievo?

«Sono state sviluppate nuove tecniche di mantenimento del cuore del donatore, di fatto un sistema che mantiene l’organo pulsante: questo consente di andarlo a prendere anche più lontano rispetto alla sede del trapianto perché dura di più rispetto al trasporto a cui eravamo abituati e soprattutto consente una valutazione su come funziona».

Nell’immaginario collettivo il cuore rappresenta oltre che il motore dell’organismo, anche la sede delle emozioni e dei sentimenti. Che effetto ha, in questo senso, dal punto di vista psicologico, un trapianto di cuore?

«L’impatto psicologico è altissimo e non solo nel paziente ma anche in chi se ne prende cura. Sia il trapianto sia gli impianti Vad o di cuore artificiale, provocano situazioni di grande stress e preoccupazione. La nostra Cardiochirurgia ha avviato un progetto, chiamato Telemaco, che mette in contatto i pazienti in via telematica, potendo tenere controllati a distanza pressione, peso, elettrocardiogramma. Inoltre tramite un iPad il paziente può collegarsi da tutta Italia, ovunque si trovi, con uno psicologo del Centro di supporto».

Quanto conta il lavoro di équipe in Cardiochirurgia?

«Siamo un team e questa è la nostra forza: cardiologi, cardiochirurghi, anestesisti, tecnici e infermieri, tutti insieme lavoriamo allo stesso scopo e con un unico obiettivo. I risultati li otteniamo perché c’è un grande lavoro di squadra, che è quello che ci fa credere nel nostro motto: rendiamo l’impossibile di oggi, il possibile di domani».

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