Padova, Minasola: «Io medico, ecco come sono stato salvato dal Covid»

Il medico di base è stato ricoverato dopo aver contratto il virus. «Fondamentali il plasma autoimmune e il professor Vianello. Attenti: è un virus devastante»
Domenico Minasola, medico di medicina generale, è guarito dal Covid
Domenico Minasola, medico di medicina generale, è guarito dal Covid

PADOVA. Parla di «miracolo», ma il suo atto di fede è rivolto innanzitutto alla scienza che, dice «mi ha salvato». Domenico Minasola è tra i molti medici che in questa seconda ondata sono stati travolti dal virus finendo sull’orlo del baratro. Da qui, rivela, «sono stato letteralmente riportato indietro dal professor Vianello e dal plasma iperimmune».

Dottor Minasola, quando si è accorto di aver contratto il virus?

«È cominciato tutto poco più di tre settimane fa. Era venerdì sera e mi sentivo stanco, ma venivo dall’ennesima giornata impegnativa in ambulatorio, passata tra visite ordinarie, se ancora possono definirsi così, e tamponi, quindi non ci ho dato più di tanto peso. Poi la domenica è comparsa un po’ di tosse e a quel punto ho cominciato a sospettare».

È cos’ha fatto?

«Ho cominciato a curarmi a casa con antibiotici e cortisone. Mi tenevo controllata la saturazione, sperando di migliorare. Poi martedì è crollata sotto i 90. E a quel punto ho chiamato il 118».

Ed è stato ricoverato.

«Sì, ma la situazione non si stabilizzava, quindi mi hanno spostato nella Fisiopatologie respiratoria del professor Vianello. Ma anche qui, invece di migliorare peggioravo. Per quanto i colleghi cercassero di tenermi su di morale, sapevo che andava male. Sono un medico, so leggere i valori e i miei erano brutti, non facevano presagire nulla di buono».

Poi cos’è cambiato?

«Il terzo giorno di ricovero, il secondo in Fisiopatologia, mi hanno chiesto se fossi favorevole a provare la terapia con il plasma imperimmune. Ovviamente ho detto di sì. Hanno subito cominciato con una sacca, quindi il giorno successivo me ne hanno somministrate altre due. Ma già dopo la seconda mi sentivo significativamente meglio. E dopo due giorni sono stato trasferito a Malattie Infettive, praticamente guarito. Un miracolo».

È il miracolo della scienza, quasi un ossimoro.

«Nella sfortuna ho avuto la fortuna di essere ricoverato in Azienda ospedaliera, dove si esprime l’eccellenza di una sanità già eccellente come quella veneta. Il plasma iperimmune viene considerato una terapia compassionevole, eppure mi ha salvato la vita. Si tratta di una cura con costi molto bassi e risultati elevatissimi. Ecco perché appena possibile andrò anch’io a donare, voglio contribuire a salvare altre vite. E credo che dovrebbero farlo tutti quelli che sono guariti. Sono devoto a Sant’Antonio e andrò a ringraziarlo, ma per primi voglio esprimere la mia gratitudine ai colleghi».

Ha capito come si è contagiato?

«Credo in ambulatorio. Porto gli occhiali e, anche se siamo bardati devo inavvertitamente essermi toccato un occhio. Questo virus è devastante, è come un cecchino, non sbaglia un colpo e gli asintomatici sono un problema. Io ho 59 anni, sono sano, senza contare che noi medici di base siamo continuamente a contatto con i virus, quindi abbiamo un sistema immunitario allenato. Eppure ancora non sappiamo perché il coronavirus colpisca così duramente alcune persone. In questo scenario di incertezza noi ci siamo ritrovati con una serie di incarichi senza avere le tutele necessarie: ci hanno dato un camion da guidare con la patente B. Si sapeva che la seconda ondata sarebbe arrivata ma invece di istruirci, ci hanno lasciati soli. Il Governo non ha capito l’importanza di fare prevenzione, da Conte mi sarei aspettato un segnale nei nostri confronti».

Cosa pensava quando era in ospedale?

«Malgrado l’affetto dimostrato dagli operatori, sono stati momenti di solitudine tremenda. Attaccato alle macchine, con il telefono come unico contatto, quando ce la fai, aspetti e speri che l’incubo finisca. Pensavo alla famiglia e a chi, in quella situazione non ce l’ha fatta».

Come si sente adesso?

«Fisicamente benissimo. Mentre psicologicamente mi ci vorranno mesi per dimenticare quei momenti. Ma voglio vedere il bicchiere mezzo pieno, adesso sono più sereno all’idea di incontrare i pazienti. Anche se credo che l’immunità non durerà più di sei mesi». —


 

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