Padova, quando la Gaetana calcava il Listòn come un «blindato»

PADOVA. Il ritratto più azzeccato si deve ad un anonimo avventore della mitica osteria ai Veronesi. Il quale, vedendola incedere a cavallo della sua mitica bicicletta in piazzetta Pedrocchi, la inquadrò in otto sole ma esaustive parole: “La pàr un caro armato a do’ rode”.
Con la sua stazza da ben oltre il quintale, in effetti, e con l’abitudine di muoversi associata a tempo pieno a una bici, la Gaetana ricordava un inarrestabile blindato. Quel suo supporto meccanico in realtà non le serviva come mezzo di locomozione su pedali: era una sorta di protesi, che le consentiva di trascinarsi per il centro, vista la sua mole, e soprattutto le gambe affette da elefantiasi. Memorabile rimane la descrizione che ne fece il grande Dino Durante, caustico cantore della patavinità perduta: “Do’ gambe che pareva boe da ormégio per mercantili”. Sta di fatto che quella sorta di colossale centauro femminile a pedali fendeva la folla come la prua di una corazzata, dispensando epiteti e insulti a chi si permetteva di prenderla in giro.

Estate o inverno che fosse, era vestita sempre allo stesso modo, con una sorta di lunga vestaglia nera che le arrivava alle caviglie, resistendo implacabile alle ingiurie del tempo. Il suo teatro di operazioni spaziava tra le piazze e Prato della Valle: un paio di chilometri scarsi, ma che ovviamente vista la mole e la dinamica della mobilità venivano percorsi in tempi biblici. Anche perché per la Gaetana la strada era tutto, servizi igienici compresi: al bisogno, si piantava a gambe larghe dove si trovava, e procedeva a soddisfarlo senza separarsi dalla sua protesi meccanica. Per dire il vero, lungo il tragitto aveva una tappa obbligata: un’edicola dove prelevava il giornale, si metteva a leggerlo anzi a sfogliarlo, e poi lo restituiva all’edicolante senza commenti; le bastava tenersi aggiornata.
Nelle piazze, si riforniva di frutta e verdura caricandole in un grande sacco, senza necessariamente sottostare ai classici meccanismi del commercio, pagamenti compresi; ma quella Padova era così, in fondo aveva un cuore grande. E ne era dotata pure lei, visto che poi buona parte di queste forniture le condivideva con altri emarginati che popolavano la città. Passava la notte al dormitorio del Torresino, e la mattina riprendeva il suo peregrinare.
Sul suo conto giravano le immancabili leggende metropolitane, inclusa quella che la voleva figlia di nobili decaduti; ma erano narrazioni umbratili, nel senso di derivare da overdosi di ombre, di quelle liquide. In realtà era nata in una delle zone allora più povere della città, Terranegra. Un giorno di fine anni Sessanta sparì di colpo; e solo più tardi si seppe che era morta nel reparto psichiatrico di un ospedale vicentino.
Più o meno in quello stesso periodo, a Padova era di casa un suo alter ego, del quale era noto il soprannome quanto ignoto il nome: la contessa Baccalà. Il singolare abbinamento tra titolo nobiliare e riferimento ittico le derivava dall’estrema magrezza e dal signorile portamento.
Arrivava nelle piazze invariabilmente paludata in un lungo cappotto nero impreziosito da un colletto di pizzo bianco, poverissima ma rivestita di esemplare dignità. Tutti sapevano della sua condizione, al punto che un anonimo cronista di strada la inquadrò con l’esemplare immagine di “incalcà de fame”. Quelli dei banchi di frutta e verdura le mettevano nella sporta il doppio di quanto chiedeva, chiaramente senza farglielo pagare. Una volta alla settimana, la domenica, si permetteva peraltro un lusso fuori programma: entrava in una nota pasticceria di via Roma oggi non più esistente, e si concedeva uno “zaléto”, tipico dolce veneto. Non potendo dargliene due, il barista le sceglieva invariabilmente quello più grande.
Toccò pure a lei, peraltro, perdere sia pure per pochi attimi il suo àplomb; ma lo fece con invidiabile dignità, com’era nel suo stile. Accadde un giorno in cui due ragazzacci nelle piazze da lontano le urlarono: “Contessa Baccalà, tàchete qua!”. Senza scomporsi, e voltando appena il capo verso di loro, lei replicò a stretto giro di insulto: “Miserandi escrementi intestinali di malnata stirpe!”. Fosse stata in scena, sarebbe venuto giù il teatro dagli applausi.
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