Personaggi da osteria, dal Calegareto al «Boie». E il moderno finger food era lo «spunciòn»

C’erano pure figure di un qual certo livello per trascorsi scolastici ma che avevano deciso di non volersi condannare al grigio tran-tran 

PADOVA. 

Perfino Guccini è diventato obsoleto: a Padova, non sono nemmeno più aperte come un tempo le osterie di fuori porta; e comunque, come nella sua canzone, “la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta”.

Eppure era appena ieri, quando generazioni di osti in vari luoghi urbani ma soprattutto in centro alzavano la serranda all’alba e la calavano a notte: includendo in un arco di orario esente da ordinanze municipali l’intero spettro umano di una città davvero aperta.

Cominciavano alle prime luci del giorno gli operai che arrivavano in bicicletta dal contado sciroppandosi qualche decina di chilometri e si scolavano un marsalino; finivano col favor delle tenebre i gallinari, alias i ladri di polli che si presentavano recando in spalla grossi sacchi di iuta pieni di galline defunte, vittime di espropri proletari ante-litteram.

In mezzo, sfilavano i tanti protagonisti del sommerso dell’immediato dopoguerra e dintorni: i riciclatori di cicche che sui tavoli dell’osteria recuperavano il tabacco residuo; i venditori di lacci da scarpe – aghi – elastici – bottoni automatici che deponevano per un po’ il fardello della cassetta portata a tracolla; i vecchi dell’ospizio, almeno quelli che riuscivano ancora a camminare.

Erano le osterie della gente senza niente, dei tanti derelitti che hanno amato l’esistenza senza poterla possedere. E anche di un autentico campionario di macchiette, personaggi che si erano guadagnati sul campo uno spazio di notorietà popolare, ricevendo in cambio un soprannome che portavano orgogliosamente come se fosse stato un diploma da incorniciare.

Mitico, nelle piazze, era un tale conosciuto come “Calegaréto”, punto e basta. Come dice la parola stessa, per anni aveva campato aggiustando scarpe, poi aveva deciso di aver lavorato abbastanza, e campava raccogliendo libere offerte: che andava immediatamente a reinvestire nelle osterie delle piazze.

Nel suo intimo custodiva sedimenti di una qual certa cultura: perché, quando aveva fatto il pieno di ombre di Corbinello, tipico vino dei poveri, cominciava a declamare Dante, limitatamente alla vicenda del conte Ugolino. Che nella sua versione rimpiazzava peraltro con la Vispa Teresa.

Altro personaggio tipico era un austero signore che di nome faceva Sergio, e il cui cognome era stato sostituito dalla voce pubblica con l’attributo “postale”. Diligentemente, tutti i santi giorni, Sergio Postale faceva il giro delle piazze, raccattava tutte le carte di ogni tipo che gli incivili buttavano a terra, e andava a infilarle nelle buche delle lettere, per la gioia dei postini quando andavano a svuotarle.

C’erano pure personaggi di un qual certo livello, almeno per passati trascorsi scolastici, ma che poi avevano deciso di non volersi condannare al grigio tran-tran di un’esistenza da travet relegata dietro una sordida scrivania; e così ci tenevano a socializzare, con una loro personale “movida” di locale in locale.

Era il caso dell’autoproclamato filosofo Noventa, che una volta fatto il pieno arringava i presenti con accese concioni politico-sociali; o di tale professor Scappato, il quale allietava le bettole declamando strofe del Tasso e dell’Ariosto, peccato che fossero sempre le stesse.

C’erano pure gli incazzati a prescindere: come “Boie”, così soprannominato perché quando incrociava persone a suo avviso benestanti le apostrofava dando loro dei “boie”; o l’Antonia, che girava regolarmente con una bici piena di sporte dal contenuto misterioso, e piazzandosi davanti al municipio, in cambio di un quartino di rosso era disposta a insultare ferocemente sindaci e assessori: consentendo così uno sfogo anonimo a buon mercato a qualche portatore di dissenso politico o a qualche presunta vittima di sgarbi amministrativi.

E infine, un assortimento di varia umanità, sempre contrassegnata col soprannome correlato alla specializzazione: Beffagna, gran giocatore di biliardo; Calcoli, imbattibile giocatore di carte; Pipetola, abile venditore di pipe di seconda, terza e via elencando mano.

Per tutti loro, prima di sparire vittima del virus della modernità, l’osteria è riuscita a mantenersi fedele fino all’ultimo alla sua radice etimologica di “hospitium”: rifugio per tutte le solitudini, asilo per tutte le solidarietà, riparo per tutti i sogni. Adesso non ha solo cambiato nome, ma anche e soprattutto pelle: incluso il suo prodotto più tipico che accompagnava le buone vecchie ombre, lo “spunciòn”. Oggi lo chiamano “finger food”. Che tristezza.

(6 – continua)


 

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