Piano: «Questo Orto è un vero miracolo»

«Scusi, ma che diametro ha l’Orto botanico?». La domanda arriva imprevista e il prefetto del centro di ateneo, Giorgio Casadoro, è preso in contropiede: «Francamente non lo so». «M’interessa la scala, è importante», insiste l’archistar Renzo Piano, che, a sorpresa, estrae dalla tasca un metro a scatto. È il momento più gustoso della visita che il senatore a vita ha compiuto ieri, in una giornata climaticamente ideale, nel giardino dei semplici istituito nel 1545. Accompagnato dal magnifico rettore Giuseppe Zaccaria e dal vicesindaco reggente Ivo Rossi, il creatore del Beaubourg di Parigi ha attraversato palmo a palmo l’Orto botanico, sfoderando interesse sincero e manifestando entusiasmo per le nuove serre realizzate dall’architetto Giorgio Strappazzon sull’area che il Bo ha comprato dai Gesuiti dell’Antonianum. A condividere l’appuntamento padovano buona parte della famiglia dell’architetto genovese: la moglie Milly Rossato (che il grande romanziere peruviano Mario Vargas Llosa ha definito «un’italiana bellissima»), reduce da una visita guidata alla Cappella degli Scrovegni; la figlia Lia (co-direttrice della Fondazione Piano); il figlio Carlo (giornalista), la cognata, le nipoti. «Viviamo tra Parigi, Genova e Torino», spiega Milly, «e questa tappa di Padova è stata un’occasione per ritrovarci tutti». Preso in castagna sul diametro (80 metri: li calcola il collaboratore Paolo, contando i passi), il professor Casadoro si riscatta alla grande sugli altri dati dell’Orto. «I giardinieri sono otto, anzi sette perché uno si è infortunato. Ma ci servirebbe più personale». «È questa la sofferenza di questo Paese» condivide il senatore. Ecco la palma di Goethe: Piano, che in Sardegna trascorreva i pomeriggi d’estate insieme a Claudio Abbado, ipotizzando 90 mila alberi da piantumare a Milano («alla fine, al nostro gruppo de “I podisti”, ne hanno concessi tre») accarezza le foglie e sprizza felicità. «Questa pianta ha 500 anni, Giorgio», dice al figlio adolescente, «e si ti togli i capelli dagli occhi, rischi anche di vederla». Si avvicina, una bimba, Sofia, con un cartoncino. Il premio Pritzker 1998 (riconoscimento consegnato da Bill Clinton) è quasi più imbarazzato di lei: «Devo farti l’autografo?». Il tempo vola mentre si arriva davanti alle nuove serre in acciaio e vetro, che raccontano la biodiversità. «È un serrone», commenta Piano, «davvero un miracolo che siate riusciti a farlo. Eppure nel bilancio di un Paese queste sono noccioline». Ma c’è da sudare, direbbero i “Ladri di biciclette”, quando si entra nella serra che contiene le piante tropicali: temperatura effettiva 28 gradi, percepita almeno il doppio. «Ragazzi, respirate», scherza Piano, «è meglio di un aerosol. Fra tre-quattro anni queste piante», indica, «arrivano là in alto». Finalmente si esce dall’inferno botanico. Nella zona desertica un tripudio di cactus e piante grasse. «E queste?» chiede l’architetto all’indirizzo di alcune specie non meglio precisate. «Questi sono proprio sassi» risponde Casadoro. «Arrivano da largo Europa» precisa Strappazzon. L’illustre visitatore offre anche un paio di consigli: «All’uscita delle serre vedrei bene una bella pianta a foglie caduche. E poi chiuderei l’angolo a destra con una struttura». Piano, Zaccaria e Rossi si scambiano i cellulari. «Speriamo di rivederlo presto», afferma il vicesindaco, «per un intervento di rammendo urbano all’Arcella».
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