Praglia, l’abbazia racconta nove secoli di storia

Un’imponente pubblicazione curata dai frati ripercorre splendori e momenti bui È come immergersi nella vita benedettina tra preghiere, lavoro e natura
Di Aldo Comello

di Aldo Comello

La nuova monografia è potente come una cannonata, poetica nell’intreccio tra preghiera e lavoro nella campagna dolce che comincia a inerpicarsi sui Colli Euganei; è un inno a Dio, all’arte e alla cultura. Si intitola “Santa Maria Assunta di Praglia. Storia, arte, vita di un’abbazia benedettina”. Più di 800 pagine, 88 tavole fuori testo (i chiostri, la chiesa, le pitture, un cannocchiale intelligente su vigneti e girasoli, api, erbe officinali, antichi, poderosi alberi, colori sfavillanti, ma anche mappe e antichi documenti). Il libro racconta nove secoli di storia.

Praglia nasce nel 1117, reca questa data il primo documento ufficiale, ma fino al 1304 dipende dall’Abbazia Polirone di Mantova. Nel 1448 passa sotto la giurisdizione di Santa Giustina e aderisce alla riforma benedettina; con la congregazione De Unitate si sancisce una “santa alleanza” tra Ludovico Barbo, abate di Santa Giustina e l’abate di Praglia, Cipriano Rinaldini. Il Quattrocento e il Cinquecento sono i secoli d’oro di Praglia, attorno a cui ruota un vastissimo patrimonio fondiario. L’abbazia vive momenti bui e periodi di luminosa rinascita che ne fanno punto di ritrovo e spiritualità; a livello culturale c’è un importante contatto con l’Università di Padova e non manca lo stimolo di una ricchissima biblioteca. Nel 1810 le leggi napoleoniche che sopprimono i beni ecclesiastici rischiano di soffocare l’abbazia. C’è una ripresa con il ritorno degli austriaci e in questa fase dà lustro alla comunità monacale la visita a Praglia dell’imperatore Francesco I° d’Asburgo. Non un arido burocrate, si rileva, ma uomo versatile per interessi che annotava su “bustine di minerva” riflessioni sulla botanica, sull’arte, sul paesaggio.

Con l’unità d’Italia una ventata di laicismo. Il 4 giugno del 1867 viene promulgata la legge che scioglie tutte le corporazioni religiose. Per i monaci di Praglia è l’esodo, si rifugiano in Istria, ne restano un paio a sorvegliare il convento abbandonato.

Poi, pian piano, la rinascita del culto e del monastero. Il chiostro medievale, cuore dell’abbazia, sorgeva su una piattaforma rocciosa, uno sperone di pietra, che si innalza isolato nella pianura. Oggi, al suo posto c’è il cinquecentesco chiostro pensile, petalo di un fiore quadrilobato, formato dal chiostro doppio, dal botanico e dal rustico. Il complesso dei chiostri, la chiesa, le logge compongono una meravigliosa galleria d’arte, opere di Bartolomeo Montagna, dello Zelotti, di Domenico Campagnola, la pala d’altare di Paolo Veronese, dipinti di Jacopo Tintoretto e Luca Longhi.

Il canone cenobita appoggia su tre architravi: Opus Dei, Lectio divina, Opus manuum cioè preghiera, riflessione teologica, lavoro manuale. Quest’ultimo per cogliere nella concretezza del quotidiano le aspirazioni, le fragilità, le fatiche e la speranza della dedizione a Dio. Nel libro, sterminato per notizie e documenti, si coglie anche qualche particolare curioso, per esempio sui contatti. tra i monaci e le donne. Nel 1468 si proibì di introdurre donne nel recinto monastico e di offrire alle stesse in questo luogo del cibo. Potevano essere accolte e rifocillate in una casa abitata dai dipendenti del cenobio. Pare che il divieto non sia durato a lungo.

C’è un fondo librario a Praglia dedicato ad Antonio Fogazzaro. Lo scrittore vicentino ambienta nel romitaggio collinare un episodio del suo romanzo “Piccolo Mondo Moderno”. Fogazzaro era uno spirito inquieto, combattuto tra fede, scienza, spiritismo, darwinismo. Traeva emozioni dalle pietre stesse dell’abbazia, dalle loro forme armoniche e possenti.

Una monumentale memoria, segno, ora evidente ora allusivo, di una storia che non è più quella di oggi, ma che oggi continua ad essere scritta.

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