Prima volta a Treviso per Marc Augé. L'etnologo francese che dice da studioso le ...
Prima volta a Treviso per Marc Augé. L'etnologo francese che dice da studioso le stesse cose di Andrea Zanzotto. L'antropologo dal fare leggero che ci mette a nudo nella nostra corsa verso il cambiamento irreversibile - la distruzione. Il professore che ha guidato l'Ecole d'Hautes Etudes capace di emozionarsi per un villaggio e di inorridire per un centro commerciale. Insomma, l'uomo che guarda gli uomini per analizzarne il presente e magari il futuro, con un intreccio di analisi, disincanto e passione: celebri i suoi libri di denuncia, il cui messaggio oltrepassa per fortuna il mondo accademico. E' un tipo, Augé, che ha intitolato un volune Perché vivere, insufficiente traduzione italiana dell'originale Pour quoi vivre: per che che cosa vivere? Questo è l'uomo che per la prima volta in vita sua, dopo aver vissuto a lungo in Costa d'Avorio, e poi nel Togo, ed essere stato in Sudamerica, e in Asia e nella sua Francia oltre che in tutta l'Europa, è arrivato a Treviso. Non sa della "Marca gioiosa". Lui incontra la Marca lungo la A27, dall'aeroporto di Venezia: «E' uguale a tanti altri posti. Vedo anonimato». Se si fermerà di più, magari correggerà la prima impressione. Ma se si fermerà di più ancora, la vedrà drammaticamente confermata. Per questo la Fondazione Benetton Studi e Ricerche con il suo direttore Marco Tamaro l'ha felicemente ospitato: non perché è un guru, ma perché questo - il Veneto - è il luogo giusto, e questo è il tempo purtroppo giusto, per ascoltare il suo pensiero, i suoi studi e le sue conclusioni. La fama di Augé è legata al tòpos dei non luoghi, e non è un gioco di parole. Non li ha inventati, li ha scoperti, li ha crudamente analizzati, li ha descritti come un passo - forse troppo lungo - della nostra società. Inannzitutto, cos'è un "luogo" per l'emerito antropologo? E' dove si possono leggere le relazioni sociali, i rapporti tra persone legati all'ambiente, al territorio, a dei segni riconosciuti di geografia e di storia. E' la sintesi di terra e di uomo: e se la si vive non c'è bisogno di spiegarlo. La storia ci ha offerto, fino a pochi anni fa, solo luoghi: intessuti di vita e natura, magari natura modificata dall'uomo ma capace di contenere ancora lo scambio di rapporti, presenze, voci alle quali rispondevano voci, riti comuni, perfino idee passanti. Questi sono i luoghi: quindi non solo entità geografiche, ma testimonianze attive di aggregazione. Evidentemente non bastava. Gli uomini hanno creato i non-luoghi: che sono l'esatto contrario. Posti cioè dove non si leggono le relazioni sociali. Infatti lì l'uomo non si ferma, passa. Dice Augé: «Ci sono spazi nuovi sulla terra: di circolazione, di comunicazione, di consumo. Prendete le ferrovie, gli aeroporti, le autostrade. Prendete le nuove tecnologie per comunicare. Prendete i grandi centri commerciali. Questi sono i non-luoghi. Dove l'uomo è sostanzialmente solo». Una delle loro caratteristiche è l'omologazione: tutti uguali, inventati dall'economia, magari anche dalla finanza, venduti come progresso. Ovunque tu vada, il centro commerciale è fatto così. Rassicurante, per certi versi: perché riconosci un ambiente. E' la nuova, deprimente, accezione del vecchio adagio «tutto il mondo è paese». Ma si passa dai sentimenti alle strutture, e al consumo. L'architetto Domenico Luciani, per lunghi direttore della Fondazione, pone Augé davanti alla questione più impellente, e molto calata sul Veneto. C'è un dibattito: chi crede all'inevitabilità della traformazione del nostro mondo in qualcosa che assomiglia ad una metropoli, e chi invece ritiene che la cosa sia più complicata, e si batte per la resistenza all'omologazione metropolitana. E' questa seconda la posizione di Luciani, e della Fondazione: è anche il senso di una vita dedicata al paesaggio, anche urbano: cioè il contenitore dei luoghi, e oggi anche dei non-luoghi. Per questo la Fondazione ogni anno segnala i "luoghi di valore", e i microcosmi da tutelare, e si connette all'antropologia. La domanda ad Augé è diretta: chi ha ragione? E soprattutto: che fare? Il professore dà una definizione preliminare di etnologia: «Guardare gli altri non vuol dire diventare gli altri». Insomma, parla da studioso prima che da citoyen: gli sembra che l'urbanizzazione del mondo sia irreversibile, ma subito cita l'esempio di Città del Messico, probabilmente la più popolata con i suoi 26 milioni di abitanti. Uno si fa l'idea che sia una megalopoli dove l'anonimato soffoca, dove le formichine umane si affastellano, e invece no: sarà il Sudamerica, sarà la genesi, fatto che «sembra un villaggio, perché è un insieme di villaggi. E l'atmosfera è piacevole». Città del Messico è ancora un luogo. Ma per il resto? «Il mondo diventa città», dice Augé, conscio che le popolazioni si muovono verso le grandi urbanizzazioni, che quindi crescono, si allargano, e non c'è più un confine riconoscibile tra città e campagna, tra una città e l'altra. C'è la circolazione più veloce, la fluidificazione dei movimenti. Augé lo dice citando il panorama francese, che ancora conserva estensioni agricole immense. Ma, sottolinea, da città a città corrono i non-luoghi, le autostrade, le strade ferrate, se passi dall'una all'altra è come se tu lo facessi in apnea, senza percezioni "sociali",'altra città ti viene subito incontro, lungo un percorso ovunque simile. Figurarsi se girasse un po' dalle nostre parti, dove veramente la campagna è indistinguibile, sprazzi tra una periferia e una zona industriale. Ecco, il mondo diventa città, e questa è l'urbanizzazione. Ma è vero anche che «la città diventa mondo». Si mescolano le persone, la globalizzazione omologa: nel contempo, si creano i ghetti, il dialogo tra le classi è difficile, i sistemi informativi non servono all'unità. Vien da dire: che mondo è? Allora ecco cosa non bisogna fare. Augé ha le idee chiare, chiarissime, ma capisce che un antropologo non può sostituirsi ai politici. Sono loro a dover decidere: ascoltassero gli antropologi, invece che finanzieri ed economisti, non sarebbe tempo perso. Allora, dice Augé: bisogna innanzitutto evitare il corollario di città separate, satellite; poi non si devono creare, nelle città, zone-spettacolo, come i centri storici trasformati in teatro. E' un interesse proprio etnologico. In Francia, per valorizzare un monumento, fanno piazza pulita tutt'attorno. «In Italia - sorride Augé - vicino ai templi antichi ci sono i garage: ma in fondo questa è la vita. Da voi, aggiunge, non si ha l'impressione di cambiare luogo passando per zone diverse dei centri urbani». Ecco, restano i "luoghi", dove l'uomo si sente a casa propria. Nei non-luoghi forse si sente a casa d'altri, o forse non si sente per niente. Spesso non si sente nemmeno quello che realmente e miseramente diventa: funzionale ad un sistema. Il sistema è solo quello dell'economia. Un esempio che sta alla radice dei non-luoghi: la separazione tra residenza e lavoro. Che obbliga a lunghi trasferimenti, quindi strutture di trasporto: gli assi di comunicazione creano un paesaggio uniforme, monotono, sembrano creare relazioni e invece le interrompono. Suggerisce Augé: ripensiamo le distribuzioni e la circolazione. Perché ci può essere anche di peggio dei non-luoghi assoluti. Il professore cita la Défense a Parigi: quartiere direzionale che può anche aspirare alla qualifica di luogo, anche se artificialmente creato. Ma che cessa di essere tale nel pomeriggio, quando si svuota, totalmente: e diventa non-luogo assoluto. Peggio ancora: quanta parte dei nostri centri storici, culla di socialità, si svuotano la sera perché si svuotano gli uffici, le banche, eccetera che hanno preso il posto delle residenze? Ecco luoghi ridotti a non-luoghi: ancora più diabolico che far nascere un centro commerciale nel deserto. Insomma, stimoli su stimoli da Marc Augé. Che la Fondazione accoglierà mentre il professore riparte dicendo che non è un profeta, non sa come sarà il futuro. Ha occhi vivissimi per guardare il mondo che cambia, e resta serafico anche se vive di passione civile. Gli chiediamo: ma arrabbiarsi, mai? Resta serafico: «Viaggio, mi muovo, invecchio».
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