Quando l’arte ci avvolge con l’illusione della luce

La luce sospesa tra la Guggenheim e Palazzo Grassi. È un vero evento che Venezia dedichi in contemporanea due mostre importanti - nelle due maggiori istituzioni artistiche straniere presenti in città - entrambe al tema della luce, in un inedito e probabilmente casuale confronto a distanza. Ne “L’impero della luce”, già aperta da qualche mese alla Collezione Guggenheim, Luca Massimo Barbero lega all’omonima opera di Magritte - il leit-motiv luministico pensato appunto per assonanze e contrasti omogenei tra artisti vicini e lontani nel tempo e nello spazio, creando una vibrante sintonia formale e visiva tra di essi. Ne “L’illusione della luce”, che si inaugura oggi a Palazzo Grassi (aperta sino al 31 dicembre), Caroline Bourgeois declina invece intorno a un ciclo di opere contemporanee della Collezione Pinault - lungo un arco, qui, di circa cinquant’anni - una rappresentazione della luce nell’arte vista più nei suoi aspetti percettivi, concettuali, in qualche modo ipnotici. Ne è un esempio la candida installazione-simbolo di questa mostra, creata appositamente per essa dall’artista californiano Doug Wheeler, che avvolge il visitatore nel grande atrio di Palazzo Grassi immergendolo come in una nebbia creata dal grande spazio concavo in cui è invitato a incamminarsi. Un nulla che si fa materia, che si dirada progressivamente, fino a far scorgere la propria ombra riflessa sulla grande parete di resina che delimita lo spazio e che poi ci ricopre nuovamente tornando indietro. A differenza di altri grandi artisti californiani della luce, come James Turrell, Wheeleer non nasconde l’artificiosità del suo “miraggio”, ce lo svela progressivamente, facendocene partecipi. E, tuttavia, nulla si perde del lucido spaesamento percettivo in cui si è presi. Nel percorso espositivo, sono propri gli artisti che più insistono sull’aspetto della percezione luminosa a costituire le presenze più convincenti.
E se un “luminista” ormai storicizzato come Dan Flavin ci propone la sua interpretazione dell’architettura costruttivista di Tatlin, stilizzandola con i suoi tubi al neon, quelli di Robert Irwin, sospesi in verticale, sembrano una versione minimalista e concettuale delle colonne doriche della Grecia antica. E la magnifica videoinstallazione cinetica di Julio Le Parc - anch’essa un’opera storica di uno dei principali esponenti dell’Optical Art - richiama irresistibilmente nelle sue cangianti trasformazioni le opere di un’artista-cardine dell’arte americana del Novecento come Louise Nevelson. Nulla ha perduto della sua potenza visiva, anch’essa ipnotica e avvolgente - accentuata dalla musica di accompagnamento di Terry Riley - anche il film di Bruce Conner del ’76 dedicato al primo test nucleare americano di trent’anni prima nell’atollo di Bikini, con l’affascinante orrore di quella nube radioattiva che si espande, candida, davanti ai nostri occhi. Meno attraente - con poche eccezioni, come quella del “tableaux vivant” in Hd di David Claerbout dedicato ai lavoratori nigeriani del settore petrolifero - la proposta degli artisti più contemporanei della collezione Pinault. Un po’ deludente e decorativa la grande installazione dell’artista vietnamita Danh Vo sul tema del colonialismo - nella sala centrale del piano nobile - che aveva mostrato ben altra forza evocativa in quella presentata all’Arsenale nell’ultima edizione della Biennale Arti Visive, con il suo tempio orientale riproposto nel suo scheletro. E lascia un po’ fredda anche la rappresentazione della primavera araba - anch’essa un po’ decorativa - di Latifa Echakhch o l’indagine introspettiva della finlandese Eija-Liisa Ahtila, per fare solo alcuni esempi.
All’illusione della luce - ma in questo caso al secondo piano di Palazzo Grassi - si accompagna un’altra mostra che nulla ha a che fare con la prima. Si tratta della prima grande retrospettiva italiana - curata da Pierre Apraxine e Matthieu Humery – dedicata al famoso fotografo statunitense Irving Penn, con opere tra gli anni Quaranta e Ottanta anch’esse della Collezione Pinault, che riprongono i temi a lui cari: dalle foto dei “piccoli mestieri”, ai grandi ritratti fotografici, alle sue «nature morte» contemporanee.
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