Quando Zanzotto condì i film di Fellini con parole visionarie

Parole e immagini, mondi diversi, manifestano spesso affinità elettive e interferenze, evidenti o sotterranee. Per il cinema e la letteratura questo rapporto si è rivelato, in età matura, uno scambio di favori, un dare e avere reciproco. Ne è prova un libro che riprende a amplia le nostre conoscenze sull’attenzione che Andrea Zanzotto ha riservato, in più occasioni anche se non sistematicamente, proprio al cinema; uscito poco dopo la morte del poeta il libro (edito da Marsilio) ha un bel titolo: Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari e una precisa e appassionata curatela di Luciano De Giusti, e viene presentato oggi alla Casa del cinema di Venezia (ore 17, Palazzo Mocenigo, S.Stae 1990) . A favorire questo interesse zanzottiano è servita la curiosità,mai di superficie o à la page, per gli altri linguaggi, dalla scienza alla musica alla psicanalisi; a determinarla con maggior forza è stata la collaborazione con Fellini, per il Casanova, per E la nave va, e –meno esplicita- per La città delle donne.
Quell’interesse nasce da lontano e si è andato depositando, provocando un atteggiamento a più facce; accanto a una delusione per le possibilità che si sono andate perdendo, perché la macchina produttiva ha reso impiastricciati (“impastrociai”) i nostri sogni, c’è una più complessa ambiguità di fondo; il cinema, infatti, brucia e illumina, è una forma «repulsiva e carica di fascinazione». Attrazione e timore nascono dal fatto che va a toccare il nostro profondo, arriva «al grop che è pi scondést de noialtri stessi». Ed è quel grumo (il “grop”) tirato fuori che, con ogni probabilità accosta Zanzotto a Fellini, la loro voglia di «far ciaro», per quanto possibile e ciascuno con i propri mezzi.
Su questa filigrana sottile e forte l’autore della Beltà traccia in più riprese un ritratto, acuto e ragionato, del convulso mondo felliniano. Così facendo prende anche a prestito alcuni motivi e li sviluppa, aiutandoci così – ecco l’originalità – a capire anche qualche tratto del suo mondo.
Nella vitale convulsione dell’autore della Dolce vita ci sono, pur nella diversità dei film, alcuni fili conduttori. Uno è la figura femminile, con la sua ambivalenza; il nevrotico (così lo definisce lo stesso Fellini) rapporto con le donne diventa un allegorico emblema dell’Eterno Femminino, in cui si mescolano attrazione e timore e residuo infantile. Certo, in primo piano c’è l’aspetto della seduzione, che tende ad estendersi e ad avvolgere. Rientrano in questo “clima” anche il cinema e Venezia, Perché il primo, ci dice il regista, «in quanto seduzione irresistibile è qualcosa di femminile nella sua essenza»; e l’idea della città che domina il Casanova – afferma Zanzotto – « è portatrice di un universale e ambiguo mito materno-femminile». Non è certo un caso se Fellini, come è noto, voleva dedicare un film a Venezia, ma il progetto non è andato in porto.
Seduzione vuol dire attrattiva erotica, anche esibizione. Ma la contraddizione permane, come in ogni nostro comportamento, e l’erotismo felliniano quasi sempre si rigira, mostra l’altra faccia, la decadenza e la perdita. L’orizzonte si allarga, perché è la nostra esperienza ad essere fatta di contrasti. Lo sa Fellini, lo sa Zanzotto.
Ma a questo intricato mondo felliniano cosa porta il nostro poeta ? Porta quella che potremmo definire la visionarietà della sua parola, che rinforza la fantasia del regista. E porta poi la concretezza del dialetto, quel suo “parlar vecio” che, nell’infanzia, comportò «una percezione fantasiosa delle parole». E quella lingua, poi rielaborata, è flusso originario non ancora omologato, recupero e suono. Siamo lontani, è chiaro, da ogni ricaduta di borgata. Sembra inutile sottolineare il patetico tentativo, fatto anche dopo la morte, di annettere Zanzotto a un uso del dialetto rozzamente paesano. Bastano le sue parole (in un altro libro) a prendere radicalmente le distanze: «La memoria è minacciata non solo dalle spinte globali, per cui si fanno sparire migliaia di piante e migliaia di lingue minori o dialetti, ma anche dalla falsa difesa delle radici, dell’identità che è basata sul fraintendimento e dall’ignoranza che generano per contrapposizione i fondamentalismi localistici». L’inquinamento, contro il quale il poeta di Soligo tanto si è battuto, distrugge l’aria e il paesaggio, ma avvelena anche le radici.
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