Quella Malindi italiana tra mare e savana nell'energia dell'Africa

Tre immagini dal Kenya: a destra e in alto due scorci di Malindi (un negozio di pneumatici usati e una delle strade del centro). Qui sopra la savana, parco naturale sorvegliato e frequentata mèta turistica
La prima cosa che sento è l'energia. E' come se qualcosa ti fosse improvvisamente entrato in corpo per caricarti come una pila. A poche ore dallo sbarco, sparisce il mal di gola con cui ero partito otto ore prima da Milano Malpensa, volo Blu Panorama. Non ci sono più i piccoli dolori che ti porti addosso quasi dimenticandotene: al gomito, al collo, il fastidio alla schiena, cose così. Sparito tutto. Mi spiegherà il motivo Giuseppe Gatto: «E' la forza dell'equatore, ti sistema tutti i valori del sangue!». (Il signor Gatto è un imprenditore vicentino che ha comprato casa qui).
L'ARRIVO
. Mombasa, Kenya. Arrivi all'aeroporto, segui le indicazioni della guida padovana Silva Garon, ti muovi tra le varie tasse dello straniero, spingi i bagagli fuori da queste mura allestite senza impegno, e ti butti nel caldo di una terra piena di sorprese. Per arrivare a Malindi, che è la città africana più nota agli italiani (in cinquemila hanno una residenza di vacanza, circa un migliaio ha deciso di fermarsi a vivere tutto l'anno) ci vogliono due ore e passa di pullman. C'è questa strada che taglia una terra nuda, arida, selvaggia. La strada su cui si affacciano negozietti fatti da quattro lamiere in croce, botteghine in cui vedi sporgere vestiti usati esposti all'aria senza ordine, cestini di frutta (mango e banane soprattutto), bottigliette di acqua o Coca Cola in bar che sono rappresentati da un frigorifero, tre sedie e un tavolo all'aperto. O ancora bancarelle che vendono pneumatici riciclati, lavati, da riutilizzare non solo per i veicoli (c'è chi li taglia e si fa delle ciabatte). Ma sono le persone che catturano i tuoi occhi. Le loro facce, il loro modo di muoversi. Donne che vestono colorate di rosso, giallo, verde. Che si muovono ai bordi di questa stessa strada con in testa cesti o più facilmente taniche di acqua presa dai pozzi. Uomini che restano seduti a guardare il traffico (intenso e disordinato dentro Mombasa, un po' meglio quando ti allontani), uomini che si parlano e scrutano dentro gli abitacoli delle auto straniere che passano, ragazzotti che siedono sulle loro vecchie motociclette all'ombra di un baobab come fossero Steve McQueen africani dai denti bianchissimi, e che in realtà fanno i tassisti: per pochi scellini fai un cenno a uno di loro e ti porta al villaggio vicino (senza casco, ovviamente). E poi i bambini: piccoli, a piedi nudi, a giocare con quel che capita, a salutare le auto, a urlare «caramelle, caramelle!», perché è questo che hanno imparato da noi occidentali, che abbiamo sempre un regalino per loro, e mi chiedo se sia davvero un bene.
BEACH BOYS
. Soggiorno al resort Garoda; è affacciato sull'Oceano Indiano che ti sorprende per il rumore emozionante delle lunghe onde, e per quell'acqua di mare così calda. Sulla spiaggia ci sono i «beach boys», che non c'entrano con il gruppo pop americano degli anni Sessanta. Sono i nostri vu' cumprà, giovani che cercano di vivere vendendo ai turisti delle spiagge braccialetti di perline o statuette di legno: giraffe, elefantini, rinoceronti da soprammobile, portaceneri in osso. Sono insistenti, mai maleducati; parlano tutti un po' di italiano, ci provano in tutti i modi a venderti qualcosa e a volte si giocano l'ultima carta, quella della disperazione: ho fame. Chiedo a uno di loro di farmi da guida, per girare a Malindi, nel cuore della cittadina diventata mèta di tanti italiani grazie ad una intuizione turistica di Flavio Briatore. «No foto, hanno paura», dice la guida Jammy appena entriamo nel mercato vecchio del pesce. Una foto ti ruba l'anima. Una foto non sai mai che cos'è. I bambini sono sempre tantissimi, ti chiedono le solite caramelle e se dici che non ne hai salta fuori un adulto che prova a vendertene un sacchetto per cinque euro (che sono tanti). Il vecchio mercato del pesce ti toglie il fiato: banchetti stretti pieni di sardine e sogliole essicate, donne indecise con pochi scellini in mano, odori forti. Hanno casa a Malindi cinquemila italiani: residenze belle, sul mare, in cui si viene a passare un periodo dell'anno (un mese, due, tre). Il periodo migliore è tra novembre e marzo. Ad aprile ci sono le piogge. Quasi tutti questi italiani che hanno la bella casa qui, hanno anche uno o due colf che tengono l'abitazione per tutto l'anno, la custodiscono, la proteggono, la curano. Puoi assumere uno di questi tuttofare locali spendendo sette/ottocento euro l'anno. Sì, avete capito bene, l'anno. Un migliaio di italiani hanno scelto di fermarsi a vivere qui, divisi tra Lamu Road, (dove proprio un italiano gestisce il Casinò) e Casuarina Road dove c'è l'Italian supermarket, ma soprattutto le ville sul mare, come quelle di Briatore appunto, quella che avrebbe comprato di recente anche Berlusconi. O quella di Francesco Totti.
UNITED CLUB
. A sentire il nome di Totti mi viene voglia di vedere lo stadio di Malindi. Scopro terra battuta circondata da lamiere. Una lavagnetta all'ingresso indica la partita del prossimo weekend. Il Malindi United è la scuola calcio ideata da Riccardo Botta, 36 anni, ex calciatore di serie minori: dal Piemonte è partito con moglie e bambini per quest'avventura africana. Ha fondato una squadra di calcio, è il suo lavoro quotidiano. Centinaia di ragazzini sotto la sua guida sognano di diventare professionisti in Europa, come Eto'o, o come il keniano Mariga. A Watamu, il centro più abitato dai locali, ci sono salette per vedere le partite in tv, via satellite. Il campionato inglese è il più amato. Due minareti segnano le estremità del quartiere musulmano: i residenti occidentali si sono lamentati più volte per i continui canti notturni dei muezzin. Proprio sull'Oceano c'è la chiesetta portoghese voluta da Vasco de Gama, quando attraccò qui nel 1498. Ora è diventata museo nazionale. Chiesette e minareti, cattolici e musulmani: vivono accanto. I pescatori controllano le maree. Ci sono grosse barche a motore destinate alla pesca d'altura. C'è una gelateria con insegna italiana, il ristorante più frequentato dai veneti è «La malindina». Un giovane giornalista lombardo, Freddie Del Curatolo, è venuto a vivere a Malindi e si mantiene con un sito internet di informazione per gli italiani (www.malindikenya.net).
IL SAFARI
. Stavolta il mio contatto è una ragazza bionda trentina, una sorta di Jane che ha deciso di lavorare da alcuni anni qui: Patrizia Pellegrini è un'agente turistica, gestisce i soggiorni nelle tende attrezzate della savana. Ci affida ad una guida africana, si chiama Abdul. La sua Toyota procede a 20 kmh. Lui scruta ogni angolo di questo spazio aperto infinito. «A italiani piace vedere carnivori, eh eh», dice. La savana cambia la tua prospettiva. Assorbi il senso della sopravvivenza. Vediamo tre leonesse sfinite e ansimanti nell'odore di cadavere di zebra ridotta a brandelli, e sangue fresco intorno a loro. Vediamo le iene muoversi all'alba, l'ippopotamo uscire dal fiume Galana al tramonto. Le famiglie di elefanti (con le zanne, mica come quelli dei circhi). La corsa folle delle gazzelle. Siamo nel parco protetto Tsavo. Al Kudu Camp mangio il pollo con Massimo Vallarin. «Sei Veneto?», gli chiedo. «La mia famiglia sta a Este, io vivo qui da trent'anni». Lavora per l'associazione Aiea (www.espertiafrica.it). Lavora per un turismo ecosostenibile, responsabile. Mi confida: «Noi italiani siamo quelli che gridiamo agli animali, gettiamo le bottiglie di plastica nella savana, vogliamo vedere i leoni e scambiamo il safari per uno zoo». La notte arriva presto. Ma fuori dalla tenda, la vita sembra muoversi con un suono che non conoscevo.
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