Ravasi: «Al vertice della bellezza c’è sempre Dio»

In un suo recentissimo scritto Stefano Zecchi, si chiede, da docente di estetica un po’ infastidito, perché si parli tanto di bellezza. Una delle risposte è contenuta nel titolo di un piccolo...
COLTRO - CARDINAL GIANFANCO RAVASI
COLTRO - CARDINAL GIANFANCO RAVASI

In un suo recentissimo scritto Stefano Zecchi, si chiede, da docente di estetica un po’ infastidito, perché si parli tanto di bellezza. Una delle risposte è contenuta nel titolo di un piccolo libricino del cardinale Gianfranco Ravasi, “La bellezza salverà il mondo” (Marcianum press, p.54, 6 euro). La celebre frase pronunciata dal principe Miškin nell'Idiota di Dostoevskij è controversa. L’ha condivisa un grande saggista laico come Tzvetan Todorov, per dare un titolo ai suoi studi su Rilke, Wilde e Cvetaeva; è contestata da Zecchi che dice che, al contrario, è il mondo che deve salvare la bellezza. Per il cardinale Ravasi la frase vale, e nel senso più letterale. Ravasi ricopre la carica di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura ed è in qualche modo la voce ufficiale della Chiesa, per quel che riguarda il bello. In questo libro non ripercorre le tappe dell’estetica cattolica, ma prova a fissare alcuni canoni, in parte coincidenti con l’estetica laica, in parte configgenti. In comune c’è il mondo greco e l’idea del “kalós kai agazós”, del bello e buono, del bello come immagine della moralità. Ravasi salda dunque tradizione ebraica e greca, sottolineando come il termine dell’Antico Testamento per designare il bello sia “tôb”, che in greco si traduce con l’equivalente di “bello”, ma anche di “buono” e “significativo”. Dunque il bello è simbolo del bene, nella Bibbia, e simbolo vuol dire unità, e dunque il contrario di diabolo, che è divisione. E già qui si capisce perché il bello salverà il mondo. Ma si può andare oltre. Il Dio cristiano - dice Ravasi - è Dio che si fa carne, che diventa materia, immagine, icona. Ecco perché arte e bellezza sono per il cristiano un modo per accedere a Dio, un veicolo quasi privilegiato, come ricorda il cardinale riferendosi in particolare alla grande musica sacra secentesca, oltre a che a molta pittura rinascimentale. La differenza con la tradizione laica del “bello” scatta in fondo qui. Perché finchè Ravasi parla del “bello” come di qualcosa capace di elevare, di unire, di rappresentare un oltre che sfugge alla comprensione razionale, il legame con la tradizione greca, rinascimentale, ma anche settecentesca e ottocentesca c’è tutto. Ed ha ragione quando rivendica la bellezza della parola biblica, capace di stimolare anche interpretazioni totalmente laiche. Anche i laici, poi, non possono non condividere l’idea che la perdita della bellezza della parola sia uno dei guasti della contemporaneità. La differenza scatta su quello che Ravasi, riprendendo Saint’Exupery, chiama il “nodo d’oro”, cioè il collegamento che la bellezza instaura tra mistero e realtà, tra umano e sovrumano. La bellezza - dice Ravasi - è conoscenza verticale, e al vertice c’è Dio, c’è il creatore: il mistero, certo, però rivelato dalla parola divina. Ecco perché, allontanandosi da Dio, la bellezza si è allontanata dal mondo. . Arte e fede, dunque, devono stipulare per Ravasi una nuova alleanza che salverà la bellezza che a sua volta salverà il mondo. (n.m.i.)

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