Saia: "Ecco perché ho deciso di dimettermi dalla giunta Bitonci"
L'assessore che ha dato il "la" alla crisi a Padova: "Il sindaco ha tradito le promesse"

PADOVA. «Aveva detto via i partiti dalla giunta e non l’ha fatto. Aveva promesso di essere il sindaco di tutti ma oggi rappresenta solo una parte della città. E sembra incredibile ma man mano che si sono presentati i problemi nella maggioranza la risposta è stata sempre di chiusura al confronto. Per questo lascio».
Sono dimissioni sofferte quelle di Maurizio Saia. L’assessore alla Sicurezza ha dovuto affrontare anche lo smacco di aver visto il sindaco definire Padova «come l’Africa». Ma è l’unico che non deve il suo posto in giunta a una scelta del primo cittadino, quanto alle 11.805 preferenze raccolte al primo turno come candidato sindaco per le liste civiche.
Maurizio Saia, come è maturata la sua decisione?
«Sono stato un competitor di Bitonci al primo turno fondando il programma su rottura degli schemi della vecchia politica con apertura e partecipazione alle migliori intelligenze della città. Al ballottaggio ho aderito al suo progetto coinvolgendo nella scelta tutti i miei candidati e sostenitori, accantonando parte dei miei dubbi. Anche perché si parlava di ricucire la città e spogliarsi dai ruoli di partito. Su queste basi abbiamo condiviso un programma».
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Al quale lei ha contribuito? E in che modo?
«Non c’è solo tutta la parte sulla sicurezza, con un approfondimento serio che offriva una dinamica di sicurezza urbana moderna. È mio anche il progetto della Grande Padova, che oggi purtroppo è dentro qualche cassetto. Per questo posso dire che c’è stato un sostanziale tradimento sia del patto politico che di una parte del programma elettorale». ù
È normale che le promesse della campagna elettorale possano cambiare alla prova dei fatti. Pensi all’ospedale.
«Non mi scandalizzo per il cambio, in parte inevitabile dell’area dell’ospedale. I programmi si possono cambiare in itinere, ma bisogna coinvolgere tutti. Io in campagna elettorale ero addirittura per un referendum. Anche sulle priorità non siamo stati corretti, vedi il Plebiscito. Va bene sistemarlo, ma nel programma vi erano altre priorità, come alcune infrastrutture per la sicurezza: il centro cinofilo e la nuova centrale operativa».
Anche nel suo caso, nessun coinvolgimento?
«Bitonci non ama coinvolgere, salvo i suoi fidatissimi o chi si trova lì per caso».
Bitonci è più a destra di lei quanto a decisionismo?
«Io mi sento di destra quando rispetto l’uomo e cerco di comprenderne le opinioni e le necessità. Quando so fare il capo con autorevolezza e non autoritarismo. E tutto ciò con lealtà. Se Bitonci è così non me ne sono sempre accorto».
Dove ha sbagliato Bitonci?
«Ha tradito il profilo da “pontiere” che l’ha fatto vincere. Peccato, era riuscito a interpretare alla grande la voglia di cambiamento».
Sente di non aver potuto realizzare il suo programma?
«Nel mio ruolo non sono stato messo nelle condizioni di fare neanche il 20% di quello volevo. Soprattutto sulle priorità: due anni fa ho fatto una delibera sulle telecamere. Oggi devono ancora essere montate. Ma è soprattutto sul modus operandis che non ci siamo. Un’ordinanza sulla sicurezza, al di là che la firmi il sindaco, penso debba essere condivisa con un assessore».
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Aveva promesso di rendere sicura Padova.
«Io ho un’idea di sicurezza urbana che ho studiato da lustri, partendo da Rudolph Giuliani e aggiornandomi per 25 anni. Non sono solo poliziotti; è un concerto fra urbanistica, viabilità, verde, arredo urbano. Ma l’assessorato alla Sicurezza non aveva questi spazi».
Invece si trova a sentire definire alcune parti della città come l’Africa. Che effetto le ha fatto?
«Io ho sicuramente sbagliato a non impormi su metodo e priorità. Ma il responsabile di questa situazione non può che essere il sindaco. A questo punto è doveroso che me ne vada».
Perché doveroso?
«Perché sul piano politico non condivido questo percorso. Avrei dovuto riprendere prima il mio ruolo politico. Mi sono concentrato disperatamente sulle mie competenze in forma tecnica, sperando di raddrizzare le dinamiche organizzative. Non ci sono riuscito».
Dove ha sbagliato lei?
«Essermi sottomesso a questa metodologia sperando che nel tempo migliorasse. Invece è avvenuto esattamente il contrario. Non si può ragionare sempre con il “Non sei d’accordo con me? Allora vai fuori”».
Cosa intende con mancato coinvolgimento?
«Faccio l’esempio della crisi di queste settimane: non c’è stata una sola riunione. Particolarmente con amministratori come me che rappresentano un’area civica che ha contribuito alla legittimazione politica del sindaco in quel mondo».
Nel frattempo lei ha tagliato i ponti con le liste civiche che l’hanno supportata in campagna elettorale.
«Non sono stato messo nelle condizioni di rappresentare la componente che mi aveva sostenuto. Ho chiesto loro pazienza pensando di migliorare la situazione. Così non è stato».
Ma cosa voleva cambiare?
«Non ho raggiunto l’obiettivo di fare politica in maniera diversa. In giunta avrebbero dovuto esserci le migliori intelligenze a disposizione della città, come anche nelle rappresentanze esterne all’amministrazione».
Nel suo assessorato non comandava lei?
«Non sono stato messo neppure qui nelle condizioni di lavorare come volevo. Impormi un comandante che fa anche l’assessore, e in qualche caso il direttore generale del Comune, ha creato distonie».
Ha dei rammarichi?
«Tantissimi. Mi dispiace che questa giunta per esempio abbia deluso i nostri dipendenti non riuscendo a migliorare la macchina comunale. Persino la meritocrazia al di là della politica non ha funzionato. Io ho sostenuto e premiato le persone indipendentemente dalle loro idee politiche».
Il fatturato dell’amministrazione in questi due anni quanto vale?
«Non spetta a me dirlo ma ai cittadini alle prossime elezioni».
Esiste un problema di legalità all’interno dell’amministrazione?
«Non credo che ci sia un tema di legalità in Comune. Anche se il sistema dei controlli per il mio settore ha funzionato poco. Se una determina del comandante la ricevi quando è già in internet e tu non l’hai condivisa può succedere di tutto».
Perché è andato in Procura? Quali sono i problemi con il comandate Paolocci?
«Di questo argomento non voglio parlare sui giornali».
Torniamo alla politica, sembra che non ci sia mai stata fiducia reciproca nel suo patto politico con Bitonci.
«Io sono un uomo di destra nel sangue. Sono stato gerarchicamente e organicamente rispettoso. Non sono stato sempre ripagato in termini di correttezza e rispetto. E sia chiaro: io al sindaco non ho mai chiesto nulla di personale ma solo di poter lavorare con autonomia per la sicurezza della città».
Il sindaco si è auto-definito il Donald Trump di Padova. Cosa ne pensa?
«Trump ha spaventato molto in campagna elettorale, ma la paura è già finita. Perché dopo la fase di rottura serve un profilo di ricucitura. Questa città e complicata, non assomiglia a nessun altro capoluogo in Veneto. La prima cosa da fare è rispettarne la storia».
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