Santa Sofia, completato il restauro: ora brilla di luce propria

Un lavoro di recupero imponente e rigoroso in una delle chiese più antiche di Padova. Un restauro che corregge molti errori storici

PADOVA. Adesso potrebbero chiamarla santa Chiara: perché così è diventata. Chiara, chiarissima, luminosa anche nella penombra rosata che solo il cotto romanico sa soffondere.

Santa Sofia riapre, alla luce prima di tutto, e poi alla gente. Che ritrova in un nitore sconosciuto una delle chiese più antiche ed enigmatiche di Padova, un luogo che ha cambiato – riacquistato – la sua atmosfera originaria, e comunque un'atmosfera intrisa di spiritualità possibile. L'architetto Gian Carlo Perdon, direttore dei lavori, con un esempio dà il senso di tutto il restauro: «Abbiamo pulito con l'acqua un metro quadrato di parete. Prima era nero. Poi rifletteva la luce».

Ed era solo un metro: quando da tutte le pareti è stato tolto lo strato di fuliggine e sporcizia, la luce ha corso di nuovo lungo le file di mattoni, ha giocato con gli angoli dei pilastri, fino a rimbalzare sulla parete di fronte. Siamo tornati al 1127, anno dell'inaugurazione della chiesa, dopo vicissitudini non esattamente rosee come i suoi laterizi.

Perché Santa Sofia, che ora voi vedete come una tersa pagina di storia, ha una gestazione difficile e una nascita travagliata. Lì sotto, sepolto da tre metri di terra, c'era un importante edificio romano, con un asse diverso da quello della chiesa attuale: ora un tratto di questo muro si può vedere, entrando a destra, da una botola di vetro. Un edificio di cui non si sa nulla, se non che si affacciava sull'importante via Annia (via Altinate) e che fu abbandonato. Il luogo venne ricoperto dalla terra, probabilmente anche coltivato. Quando si decise di costruire la chiesa? E qui c'è subito uno degli interrogativi senza risposte certe: si cominciò dalla cripta, ma quando? La cripta è un ambiente piuttosto vasto, naturalmente sotto il livello del suolo e c'è chi dice che sia stata realizzata sul luogo di un locale pagano, forse destinato al culto del dio Mitra. E' solo un'idea che nasce dal ritrovamento di ossa animali, ma non da strutture identificate. Tanto più che la stessa ipotesi è stata fatta per quanto si è trovato sotto la chiesa di Sant'Eufemia, ora scomparsa, che sorgeva dove ora c'è Palazzo Mocenigo: cioè al di là di via Morgagni, quaranta metri in linea d'aria. Due mitrei così vicini? Comunque la cripta è stata fatta: anzi, ha le stesse identiche caratteristiche (le dimensioni, le volte) di quella della basilica di san Marco a Venezia, iniziata nel 1063. Furono quindi maestranze veneziane a costruirla, ma ad un certo punto si fermarono e la costruzione venne abbandonata. Tagli, anche in quello scorcio del primo secolo dopo il Mille. E non saranno gli ultimi per questa Santa Sofia che sorge a strappi, con soste e riprese, e vien su con un progetto che cambia a seconda delle disponibilità economiche. Quando si riprende, più o meno nel 1106, si riparte dall'abside. Che è bizantina, quindi veneziana, in ogni suo millimetro. Tre ordini di archetti a semicerchio, con una tecnica di costruzione molto raffinata ed un effetto finale che nemmeno l'attuale assedio dell'asfalto riesce ad attenuare. I muri sono spessi due metri, il giro d'archi più in alto ha anche un deambulatorio percorribile: era il momento in cui c'erano soldi. All'interno l'abside rivela uno sviluppo notevole, la stessa tecnica raffinata (andate a vedere come sono posati i mattoni nella volta delle nicchie), ma anche un clamoroso “pentimento”: il deambulatorio che dovrebbe correre dietro l'altar maggiore si interrompe senza un perché, sembra senza senso rispetto alla perfezione dell'esterno. E' uno degli stop per mancanza di denaro. E il cantiere si ferma, cambia il progetto. Adesso vediamo una chiesa con facciata a capanna e tre navate. Ma in qualche momento è probabilmente esistito il transetto: lo testimoniano le fondazioni, sia a nord che a sud, dove è stato trovato un muro lungo più di cinque metri. Ha indagato la questione il professor Gian Pietro Brogiolo, docente di Archeologia medievale al Bo, che è sicuro: «il transetto è stato costruito, e poi è stato demolito».

Una chiesa diversa, insomma, progettata più grande e sontuosa, e poi diventata più piccola man mano che il tempo passava. Infatti, l'abside è sproporzionata, e questa stranezza ha forse inficiato i giudizi critici sulla chiesa. Per esempio: la facciata pende in avanti, ci sono settanta centimetri di aggetto dalla base alla sommità. Giudizio: non sapevano costruire. E invece il parziale cedimento delle fondazioni è probabilmente avvenuto a causa del terremoto del 1117, quello che buttò giù Santa Giustina. Insomma, Santa Sofia si è inclinata, ma ha resistito.

Altra fola: alla fine del Trecento, si decide di sostituire il tetto. Prima la copertura era sostenuta da capriate, si fanno delle volte a crociera. Si legge che «c'era un tetto di paglia, e il peso della nuova copertura evidenziò un'insufficienza della struttura». Per cui, per fare le volte, si dovette anche allora ricorrere a tiranti, chiavi e quant'altro per “tenere” i muri. Ma vi immaginate un tetto di paglia, alla fine del trecento e per un edificio di culto? In realtà la chiesa, anche se a pezzi e bocconi, fu costruita bene, e soprattutto le maestranze erano bravissime. Dovevano lavorare in economia. Utilizzarono materiale romano di recupero: le grandi pietre dello Zairo da Prato della Valle, colonne e capitelli romani e bizantini. Adattando il progetto a quello che trovavano, e che si vede ancora oggi, nella diversità delle colonne, nelle composizioni disparate.

Insomma fecero di necessità virtù, riuscendo tuttavia a mantenere intatta l'impronta del romanico-gotico. Questo per dire che Santa Sofia non è una chiesa bastarda, ma contiene nelle sue pietre le difficoltà, e quindi le soluzioni, le astuzie, dei suoi tempi, ce le fa leggere oggi. Il vescovo Sinibaldo nel 1123 scrive di un cantiere fermo. Ma nel 1127 la chiesa è finita.

Saltiamo ai tempi più recenti. Il parroco della fine degli anni '50 dev'essere stato mandato dalla Provvidenza. Si era trovato per le mani una chiesa trasformata dal barocco: altari, superfetazioni, orpelli. “Via tutto”, decise e non ascoltò più di tanto nemmeno la Soprintendenza. Cancellò, è vero, i resti di pitture murali che occhieggiavano qua e là (non era un ciclo completo), ma in compenso rese la chiesa pura, restituendole le linee e le proporzioni interne. Fece anche il riscaldamento a pavimento, un'innovazione per quei tempi.

Bene, l'attuale restauro comincia proprio di lì: dopo cinquant'anni, i tubi del riscaldamento perdevano. Per primo se ne è occupato don Daniele Prosdocimo, parroco fino al 2008. Poi don Giorgio Ronzoni. L'iniziativa è stata della parrocchia, che aveva le idee chiare. I finanziamenti sono arrivati in massima parte da Fondazione Cariparo, Regione Veneto, un piccolo contributo da Comune e Provincia. Un lavoro sapiente e convinto, seguito dall'architetto Pezzetta della Soprintendenza ai Beni Artistici, ma “fatto” da gente innamorata del progetto. Come l'architetto Perdon, direttore dei lavori, che a due giorni dall'inaugurazione, sta ancora disegnando particolari da migliorare. O come l'ingegner Modena, che si è inventato una catena “invisibile” per tenere assieme i pilastri, al posto di quelle invasive precedenti. O l'ingegner Tretti, che ha fatto tutti i calcoli. Perché a Santa Sofia, mica c'è stato solo da pulire. Togliendo lo strato di sporcizia dai muri, sono venute fuori crepe e crepette, fessurazioni, magagne. E loro a ricomporre, consolidare, sistemare, Si è scoperto che i pilastri sono fatti “a sacco”: tecnica romana e bizantina, con i quattro lati del pilastro in cotto, e il vuoto in mezzo riempito di calcinacci, malta eccetera. In economia, si diceva, ma con una tecnica sapiente e allora poco usata.

E sotto il pavimento si sono trovate le strutture “di cantiere” di una fornace per la calce, fosse per la malta: e questo grazie agli scavi di Stefano Tuzzato. Dall'antico al modernissimo: su pilastri e pareti sono fissati 44 sensori collegati ad un computer, e il computer all'Università, per registrare ogni minima variazione statica. Tutte le luci sono a Led: e non è solo una questione di risparmio (da 10 a 6 kilowattora utilizzati) ma anche estetica: sopra le catene della navata centrale corre un filo di luce elegantissimo. L'impianto elettrico è invisibile ma raggiunge ogni punto della chiesa.

In due anni scarsi, con due milioni di euro, si è fatto tutto: andando perfino a trovare la stessa cava, a san Giorgio di Valpolicella, da cui era stato estratto il marmo bronzetto a fine anni '50, per rifare il pavimento uguale. “Opaco”, si è impuntato l'architetto Perdon. E ha ragione, perchè la luce riconquistata ora arriva dall'alto e dalle pareti, non va disturbata in questa sua nuova vita. Venerdì c'è l'inaugurazione, è alle sei di sera e sarà buio. Brilleranno i Led, ma andate di mattina a vedere Santa Sofia chiara.

Don Giorgio Ronzoni quattro mesi fa ha avuto un incidente d'auto. Da allora è in ospedale, bloccato, un recupero difficile. Ma questo restauro in gran parte è merito suo. Vogliono portarlo in carrozzina, a Natale, nella sua chiesa.

A Natale, più di una nascita, una resurrezione.

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