Santi consumi, la religione è uno spot

di Nicolò Menniti-Ippolito
Quando nel 1973 usci il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, che utilizzava due slogan come “Non avrai altri jeans all’infuori di me” e “Chi mi ama mi segua”, Pierpaolo Pasolini, in un articolo rimasto famoso, vi lesse l’eclissi finale della Chiesa, il trionfo della religione del consumo e del neocapitalismo senza più remore. Le foto delle modelle con jeans aperti e le forme in vista, firmate da Oliviero Toscani e pensate da Emanuele Pirella, incorsero anche nell’intervento della magistratura che le sequestrò e nell’accusa di blasfemia da parte dell’Osservatore Romano.
A distanza di quarant’anni viene da dire che quel caso finito in prima pagina era solo l’inizio di un processo: quello del trasferimento della simbologia religiosa dalla sfera del sacro a quella del consumo. Oggi usare San Pietro per pubblicizzare un caffè non è un problema per nessuno, la frase scelta da Pirella è stata usata anche per pubblicizzare un Suv, lo slogan “Come bio li ha fatti” occhieggia tranquillamente in molti supermercati. E contemporaneamente le diverse confessioni religiose hanno cominciato a farsi pubblicità, perché l’otto per mille è una risorsa per la quale vale la pena anche utilizzare gli spot.
Di religioni e pubblicità parla “La migrazione dei simboli” (Guerini Scientifica Editore, pp192, 18,50 euro) di Carlo Nardella, giovane sociologo delle religioni, che fa ricerca nelle università di Milano e Padova. E anche se non lo esplicita, la ricerca di Nardella sembra dare ragione, dati alla mano, alle teorie pasoliniane. Il campo della pubblicità e quello religioso si sono negli ultimi 40 anni molto avvicinati e questo permette che alcuni simboli passino dall’uno all’altro, migrino come dice il titolo. Se da un lato le religioni tendono a diventare brand per essere più “vendibili”, dall’altro i brand commerciali acquisiscono sempre più la capacità di diventare punti di riferimento, segnali di appartenenza a una comunità. Questo avvicinamento di due campi, originariamente distanti, ha permesso - questa la tesi di Nardella - la migrazione dei simboli e in alcuni casi anche il loro mutamento di significato. È il caso della “tentazione”, uno dei più usati in manifesto e spot. Slogan come “non si può rinunciare a tutto” posti accanto a un abito talare o “ci sono tentazioni a cui non si può resistere” con tanto di mela, indicano chiaramente che la tentazione è argomento forte, ma capovolto di segno perché diventa positivo come in “il vero peccato è non morderlo” o “il peccato si fa più originale”.
Il rischio, segnala Nardella, è che l’abuso di simboli religiosi faccia perdere loro identità. Succede già con la tentazione, perché in molti slogan il legame originario con la sfera religiosa è perso. In realtà il richiamo a elementi religiosi è già presente, ricorda il libro, negli anni Trenta, ma la frequenza raggiunta negli ultimi anni non ha eguali e l’aumento è costante. In testa, nell’uso dei pubblicitari, è “l’aldilà”, ovvero paradiso e affini. Molto bene vanno anche i comandamenti (tanti undicesimi comandamenti, per esempio) e poi la croce in tutte le sue forme, l’immagine di Gesù e anche quella del Padreterno.
In declino negli ultimi dieci anni invece l’immagine del clero, evidentemente meno attrattiva: e bisognerebbe anche chiedersi il perché. Ma la pubblicità non usa solo il cristianesimo. In grande ascesa sono le pubblicità ispirate dalla religiosità new age, mentre cominciano a farsi strada anche mele taoiste e piumoni buddisti.
Ma per quali prodotti si usano i simboli religiosi?
In realtà, dimostra Nardella, per quasi tutti, ma curiosamente al primo posto si trovano i prodotti legati alla “vanità” personale e all’ultimo quelli legati alla “famiglia”. E questo sembra confermare come l’inversione nell’uso dei simboli religiosi da parte della pubblicità sia dato acquisito. Con buona pace di chi quarant’anni fa si scandalizzava e oggi appare rassegnato nel vedere una simbologia forte e drammatica svuotata e piegata a esigenze decisamente molto diverse.
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