Dal Sud Sudan alla speranza, il racconto dell’infermiere padovano in missione con Msf

Federico Cremonesi è infermiere di Medicina d’urgenza, ma da anni presta la sua esperienza sanitaria per la Ong: «Abbiamo azzerato la mortalità durante un’epidemia di colera» 

Edoardo Fioretto
Francesco Cremonesi in missione con Msf
Francesco Cremonesi in missione con Msf

La guerra non guarda in faccia nessuno. La morte, nei campi di battaglia – siano dispute territoriali o conflitti civili – è spesso imprevedibile.

È così anche in Sud Sudan, dove sia per errore, che per volontà, non mancano di essere coinvolti i più deboli: donne, bambini, famiglie innocenti. «Alla fine di questa esperienza mi porto dentro un sacco di ricordi, ma soprattutto molti successi: storie che mi hanno mostrato come possiamo fare la differenza in un Paese in cui la Sanità non è ancora a disposizione di tutti», racconta Francesco Cremonesi.

Infermiere trentaduenne del reparto di Medicina d’urgenza dell’ospedale di Padova, è recentemente tornato da una missione che lo ha visto svolgere il ruolo di cooperante internazionale per Msf – Médecins sans frontières – nell’area di Malakal, sulle rive del Nilo bianco.

Ha dovuto fare i conti un una nazione piegata da decenni di conflitti interni, finiti nel 2020 con una fragile tregua, e gli strascichi di una brutale guerra civile nel vicino Sudan (da cui il Sud è diventato autonomo dal 2011) che portano a cicliche ondate di profughi. «Quando sono arrivato era in corso un’emergenza migratoria, che ha poi innescato un’epidemia di colera», racconta Cremonesi, che a Malakal ha svolto una mansione di coordinamento.

«Gli stessi conflitti etnici in Sud Sudan», aggiunge, «hanno spesso portato a sfollamenti di intere tribù, oltre che creare problemi di sicurezza per le attività di Msf. Noi portavamo medicine di base per garantire il minimo di assistenza sanitaria nella regione dell’Alto Nilo, ma spesso le nostre operazioni sono state interrotte da questi conflitti. Non senza problemi per le comunità locali che dipendono dai nostri aiuti, dai farmaci che riusciamo a portare e alle visite che facciamo nelle aree più remote e lontane da strutture ospedaliere».

Le guerre non portano solo a vittime dirette del conflitto, ma anche a condizioni di salute precarie.

«Nelle aree più remote facciamo attività di educazione alla prevenzione», spiega il cooperante, «significa che cerchiamo di dare ai medici di prossimità locali gli strumenti per individuare per tempo l’insorgenza di problemi più seri, ed evitare che possano degenerare».

E prosegue: «I problemi più diffusi sono legati a casi di tubercolosi, morbillo, leishmaniosi, ma anche sifilide e la malaria: se trattate per tempo possono essere curate, ma quando gli ospedali sono pochi e lontani, e magari raggiungibili solo via fiume, diventano spesso letali».

Una missione complicata, infatti, anche dai limitati accessi del personale di Msf alle varie comunità locali, che a loro volta hanno pochissimi mezzi per arrivare agli ospedali della capitale.

«La via di comunicazione principale è il Nilo bianco e alcune strade sterrate. C’è chi fa sei ore a piedi solo per essere curato», racconta Cremonesi, «un viaggio che non tutti possono fare».

Ed è proprio qui che Msf riesce a dare un supporto di prossimità alle tribù locali. «Se non fosse per questa Ong, la mortalità sarebbe molto più alta», evidenzia l’infermiere padovano. «Abbiamo avuto a che fare con un’epidemia di colera: noi siamo stati in prima linea per medicare e gestire la logistica. Prima di noi la mortalità era di sette persone ogni dieci-mila abitanti. Poi si è ridotta a zero».

Nonostante le condizioni di lavoro precarie, i successi non sono mai mancati. «Durante una delle uscite per consegnare medicinali abbiamo trovato una ragazzina di quindici anni con un’appendicite acuta in un villaggio», racconta Cremonesi, «non sarebbe mai riuscita ad arrivare in ospedale, così ce l’abbiamo portata noi e si è salvata. Un’altra volta, in un villaggio abbiamo trovato una bambina di dieci anni affetta da colera e fortemente malnutrita: anche in questo caso è stato provvidenziale che fossi riusciti a trovarla e portarla per tempo in ospedale. Ora sta molto meglio».

Un caso però resta fermo nella memoria del cooperante: «Una bambina di appena quattro giorni di vita. Stava molto male, ma a causa dei conflitti armati tra tribù le strade sono state chiuse e la madre non è riuscita a portarla in ospedale in tempo. Non ce l’ha fatta». Un’esperienza che ricorda come la guerra non guardi in faccia nessuno, che sia per le conseguenze dirette o indirette dei conflitti.

«È un’esperienza che consiglierei ai miei colleghi», conclude Cremonesi, che all’attivo ha anche una missione in Repubblica del Congo, «abbiamo un privilegio, quello di avere avuto una formazione di altissimo livello. Andare in quei paesi è anche un’occasione per trasmettere queste conoscenze». 

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