Thiene, ecco i misteri delle morti bianche

L’intervista della domenica. E’ dal 1984 che il professore padovano studia i difetti ereditari del cuore: così il «modello veneto» ha fatto scuola
CARRAI - EQUIPE DOTT. THIENE CARRAI - EQUIPE DOTT. THIENE
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di Aldo Comello

Morire quando la vita è al culmine, il cuore pulsa, i muscoli lavorano, un calore vitale corre nelle vene. Morire giovani e sani, magari nel corso di una competizione sportiva: il cuore si ferma di colpo, la circolazione si arresta e dopo 5-7 minuti i danni al cervello sono irreversibili, si è passato il punto di non ritorno.

Il professor Gaetano Thiene, proprio all’inizio di carriera negli anni ’80, rimase sconvolto dal fenomeno delle morti improvvise giovanili, una vera e propria strage degli innocenti. Comincia ricordando una serie di tragici flash: ventenne, bellissima, giornalista, muore all’improvviso nuotando. L’autopsia rivela una tromboembolia polmonare, proviene dalle vene del bacino. Ancora: 28 anni, campione di basket: un lacerante dolore al petto. Muore subito dopo il ricovero. L’aorta è scoppiata per dissezione spontanea. Altro caso: 22 anni, calciatore, mezzala, ha segnato due gol, prestazione bellissima, nel secondo tempo crolla a terra e muore. Dall’autopsia risulta l’origine anomala di una arteria coronarica. Come il medico di 26 anni, già campione di ciclismo: sta giocando a tennis, si allontana ai bordi del campo e stramazza. Qualche mese prima, dopo un episodio di palpitazioni, gli era stata riscontrata all’elettrocardiogramma una tachicardia ventricolare. All’autopsia il ventricolo destro del cuore mostra una infiltrazione fibroadiposa, un tessuto atipico, incompatibile con l’attività elettrica del cuore. Questa trasformazione del tessuto è causata da una sorta di suicidio del cardiomiocita seguita da una riparazione con tessuto fibroadiposo.

A questo punto la scoperta di una nuova malattia?

«Il giovane era affetto da cardiomiopatia aritmogena. Ma ci vollero anni per capire che quel substrato fibroadiposo era aritmogeno e che anche il cuore destro può essere un killer. Il campo in cui avvenne la scoperta è la genetica molecolare. Si capì che la malattia era causata dalla mutazione dei geni che codificano le proteine dei desmosomi».

Professore, che cosa sono i desmosomi?

«Si tratta di apparati di giunzione, che consentono alle cellule di rimanere attaccate durante la contrazione meccanica del cuore. Giunzioni cellulari geneticamente alterate portano alla morte progressiva delle cellule cardiache, i cardiomiociti, che vengono sostituiti da tessuto fibro-adiposo. Questo altera la trasmissione dello stimolo elettrico generando pericolose aritmie ventricolari. Ma fin dalla prima fase di questo studio avevamo capito che vi è un ampio spettro di malattie cardiache a rischio di morte improvvisa. Infatti le alterazioni di tutte le strutture del cuore possono avere effetti esiziali: l’aorta, le arterie coronariche, il miocardio, le valvole, il tessuto di conduzione. Ffra i primi 60 casi pubblicati nel New England Journal of Medicine nel 1988, il 20% erano persone affette, senza saperlo, da cardiomiopatia aritmogena. Nelle loro famiglie si erano verificati altri casi di morte improvvisa giovanile e proprio lo studio sistematico di queste famiglie consentì di stabilire che la cardiomiopatia aritmogena è una malattia genetica».

Il problema della morte improvvisa giovanile, con la tensione che suscitava la ricerca di una via d’uscita in termini di terapia o di prevenzione, ha influito sulle sue scelte tanto da provocare una correzione di rotta nella carriera?

«C’è stato anche questo e ci sono state importanti occasioni di esperienza. Nel 1984, partii per un soggiorno di 5 mesi al Cardio-Thoracic Institute di Londra. Mentre occupavo la cattedra di Morfologia cardiaca pediatrica, temporaneamente vacante, stesi un progetto di ricerca sulla morte improvvisa giovanile che fu approvato e finanziato dalla Regione Veneto. Si trattava di documentare e studiare tutti i decessi improvvisi nel territorio regionale. Questo segnò concretamente la mia “conversione” dalle cardiopatie congenite alle cardiopatie aritmiche. Grazie alla collaborazione dei medici legali e degli anatomopatologi, completammo questo studio e venne costituito un gruppo interdisciplinare composto da cardiologi, patologi e genetisti. Si trattava di capire quali malattie potessero destabilizzare elettricamente e arrestare il cuore e se i difetti cardiaci fossero di natura ereditaria».

Identificato l’assassino, quali mezzi per bloccarlo?

«Dal 1990 al 2000 è stato un succedersi senza sosta nello sviluppo di tecnologie diagnostiche, terapeutiche e preventive delle deformazioni strutturali del ventricolo destro con l’angiografia, l’ecocardiografia e la risonanza magnetica che è in grado di analizzare anche le caratteristiche dei tessuti e la presenza di quella sostituzione fibroadiposa che è la miccia del rischio aritmico. Inoltre, l’indagine molecolare nel sangue consente l’identificazione del gene mutato che codifica la proteina difettosa. C’è anche la possibilità, con il mappaggio elettroanatomico, di individuare aree a scarsa attività elettrica che possono eventualmente essere soggette ad ablazione per spegnere il focolaio aritmogeno. Per avere un’idea della sensibilità elettrica del cuore va spiegato che è una vera e propria elettropompa. E’ come lo spinterogeno per il motore, se si guasta la macchina si ferma».

Farmacologia e strumenti di indagine innovativi hanno rivoluzionato le terapie?

«Certo, ma la spallata decisiva è stata data, più che dai farmaci, dallo stile di vita e dall’impiego del defibrillatore. Abbiamo condotto, in collaborazione con la Medicina dello Sport dell’Usl 16, una serie di studi che hanno potuto dimostrare che lo sforzo è un fattore scatenante dell’aritmia. Per cui l’identificazione degli atleti affetti da cardiomiopatia aritmogena e la loro squalifica dall’attività agonistica è un vero e proprio salvavita. La legge del 1982, che prevede responsabilità penali per l’erronea idoneità allo sport, è uno strumento provvidenziale. La mortalità, che negli anni Ottanta si attestava attorno ai 4 decessi ogni 100 mila atleti l’anno, è scesa attualmente allo 0,4. Il modello italiano è unico al mondo, caratterizzato da una medicina e cardiologia dello sport, soprattutto in Veneto, di altissima professionalità».

Questa la prevenzione che ha dato ottimi risultati. Ma sul piano della terapia, quali passi avanti sono stati fatti?

«Cruciale l’uso del defibrillatore impiantabile. Lo strumento permette attraverso un catetere posto nel ventricolo destro di registrare l’insorgenza di una fibrillazione ventricolare. La risposta è uno shock elettrico, una scossa di resurrezione che riporta il cuore al ritmo normale».

Se dovessimo fare una classifica, in che posizione ci troviamo rispetto agli altri Paesi?

«Direi che il modello italiano è tra i migliori al mondo per il paziente e quindi per la persona. Negli Stati Uniti ogni applicazione medica è condizionata dai costi rapportati all’età e all’effettiva speranza di vita del paziente. Da noi l’etica ippocratica, la difesa della vita, è più radicata: la maggior parte dei medici svolge la propria attività nella convinzione di adempiere ad un compito che si avvicina come spirito a quello del missionario, frutto delle radici cristiane del continente europeo, delle quali ancor oggi beneficiamo».

La raccolta dati è stata realizzata in collaborazione con l’ufficio stampa dell’Azienda ospedaliera.

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