Tre pannocchie nello stemma di Arre per una comunità agricola

Fin quasi al 1300 non c’è alcuna traccia della località nei documenti storici. Prima arrivò la chiesa, con le bonifiche anche Carraresi, Papafava e Capodilista
Arre, 25 ottobre 2017 Vedute di Arre
Arre, 25 ottobre 2017 Vedute di Arre

ARRE. Tre pannocchie sono meglio di una fotografia, specie quando svettano nel gonfalone ufficiale del Comune: così che basta guardarlo per ricavare subito l’informazione di base sul “chi è” di Arre, o quanto meno sul suo forte legame con la terra, che dura tuttora anche in tempi di Internet e di globalizzazione.

Nel cuore del Conselvano, questo piccolo centro abitato sembra sfuggito alle pagine della storia, sprofondato in un singolare anonimato che ha pochi precedenti. Qualche notizia, ma solo di sfuggita, suggerisce l’esistenza di un primo nucleo già sulla soglia dell’anno Mille: da quel poco che si riesce a mettere assieme, si può presumere che si sia trattato di pochi insediamenti sparsi, legati a un’economia di pura sussistenza, considerando che l’intera zona era ricoperta da boschi e paludi.

Dunque, perfino le scorrerie barbariche che attraversano l’intera provincia di Padova nella seconda metà del primo millennio dopo Cristo non hanno neanche il più piccolo aggancio per dedicare una particolare attenzione a quest’area.

Per trovare un primo riscontro di una certa consistenza bisogna aspettare in realtà la fine del Duecento, per la precisione l’anno 1297, quando in una decima papale viene espressamente citata una chiesa di Santa Maria di Are, dipendente dalla Pieve di Conselve.

La notizia è di una certa importanza, anche perché suggerisce qualche spunto sull’origine del nome del paese: secondo alcuni esso è legato alla presenza diffusa di aie (in dialetto “are”), il che fa pensare a una realtà caratterizzata da fattorie e da un’economia esclusivamente agricola; altri invece vanno a scomodare la storia remota, ipotizzando una derivazione dal nome di un’antica famiglia padovana, Arria.

Una lettura peraltro improbabile, perché gli antichi romani non avevano alcun motivo per piantare qui una qualche radice, e perché i patavini loro primi discendenti avevano sì (almeno quelli con un reddito significativo) proprietà nella campagna, ma quella di Arre all’epoca non sembrava proprio offrire un gran che.

La confusione è aumentata dal fatto che il paese appare citato, in vari documenti successivi, con denominazioni diverse, che vanno da Ari ad Aire, da Ara ad Are.

Meglio dunque lasciar perdere la disputa di natura toponomastica, e cercare di mettere insieme le scarse tessere che consentono di ricavare qualche notizia sulla storia del piccolo paese: talmente piccolo, per inciso, da essere tra i pochi del Padovano a non avere neanche una frazione.

E questo sta ad indicare che il nucleo abitato è rimasto sempre molto concentrato, presumibilmente attorno a quella chiesa di Santa Maria che viene citata nella decima papale. Anche questo consente di ricavare qualche indicazione sia pure sommaria, legata alla dipendenza dalla Pieve di Conselve.

Va ricordato che le pievi, in quell’epoca, rappresentano una realtà non soltanto religiosa ma pure civile: sono di fatto il polo attorno al quale si aggrega la vita della comunità sia per le cose dello spirito che per quelle del corpo.

Per lungo tempo, diventano il luogo in cui i capifamiglia vengono convocati per discutere le comuni questioni di proprietà, di rapporti, di confini, di economia e di quant’altro; e le poche famiglie sparse che vivono nel territorio che fa capo alla pieve arrivano fino a lì quando sono in ballo argomenti che le riguardano.

Per trovare qualcosa di più consistente nella storia di Arre, bisogna in realtà aspettare almeno un paio di secoli: il tempo che i Carraresi, una volta assicuratosi saldamente il controllo di Padova e del suo territorio provinciale, avviino con il prezioso concorso dei monaci benedettini vasti interventi di bonifica che recuperano grandi estensioni di terra non solo per l’agricoltura, ma anche per scopi residenziali; questi ultimi peraltro rigorosamente riservati a quelle che oggi chiameremmo le seconde case, nella fattispecie finanziate dai nobili dell’epoca.

Tre famiglie della Padova-bene, in particolare, da lì in avanti puntano l’attenzione su quell’angolo di natura rimasto sostanzialmente invariato nel tempo: i Carraresi, i Papafava e i Capodilista, che in epoche successive fanno costruire confortevoli ville proprio ad Arre, distante appena una ventina di chilometri dalla città e dunque facilmente raggiungibile.

C’è da aggiungere che l’opera di bonifica dei Carraresi viene continuata e razionalizzata dalla Serenissima, quando agli inizi del Quattrocento si annette la terraferma padovana. In questo contesto, le ville diventano non solo luoghi di piacere in cui rifugiarsi specie per sottrarsi alle canicole estive, ma anche veri e propri centri aziendali cui fanno capo vasti appezzamenti di territorio.

Con i proventi dei campi, le famiglie-bene possono garantirsi quella che si potrebbe chiamare una generosa integrazione di reddito; anche perché ai contadini che lavorano la terra per conto di lorsignori resta sì e no di che mettere (faticosamente) assieme un magro pranzo con una smunta cena.

Di particolare rilievo appare la residenza dei Papafava, una delle “dinasty” portanti dell’intera storia padovana, e alla quale fanno capo edifici e terreni in molte aree della provincia.

Arre, marginale com’è rispetto alle grandi vie di comunicazione, rappresenta un piccolo quanto suggestivo angolo incontaminato e tranquillo dove cercare un po’ di pace; e i titolari ci vengono spesso, per giunta aprendo le porte della loro splendida residenza ad amici cari e pure a personaggi illustri che è sempre saggio tenersi buoni.

Così accade nel 1747, quando villa Papafava ospita il vescovo di Padova. Non un personaggio qualunque: si tratta di Carlo della Torre Rezzonico, esponente di una nobile famiglia veneziana, nominato a capo della chiesa patavina quattro anni prima.

Uno della serie “saranno famosi”: nel 1758, a 65 anni di età, subentra a papa Benedetto XIV, con il placet di una superpotenza dell’epoca quale l’Austria, assumendo il nome di Clemente XIII. Morirà nel 1769, e una quindicina d’anni più tardi sarà niente meno che Antonio Canova a “firmare” il suo imponente monumento funebre in San Pietro.

 

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