Un gigolò chiamato amore Così Clara racconta le nordestine turiste del sesso

L’ex sindaco di Scorzé è al suo secondo romanzo, percorso dall’eros esplicito come il primo, «Desideria». In realtà un ritratto della borghesia arricchita
Di Paolo Coltro

di Paolo Coltro

Ti dicono che Clara Caverzan ha scritto un altro romanzo erotico. Dopo quattro anni, dopo Desideria. Una maestra di scuola elementare, una ex sindaco di Scorzè , una signora ben dentro la maturità che non ha perso il vizio. Vizio? Ispirazione, dice lei. Ti dicono che questa volta il tema è il turismo sessuale, naturalmente al femminile: cinquantenni all'arrembaggio del sesso esotico, in cerca di quelle emozioni che il tran tran della vita occidentale, cioè gli uomini occidentali, non sa più dare. Oppure donne sole, o donne libere. Il libro si intitola Goddbye, habibi e ha un sottotitolo: Virginia. Lo pubblica edizioni Anordest, di Treviso. Il clou della questione, apparentemente, non è tanto il romanzo in sé, quanto che un'ex prima cittadina sfidi di nuovo morale e benpensanti, si rituffi nell'eros, rompa gli schemi, se ne freghi dell'ipocrisia e scriva a chiare lettere quello che molti sanno e parecchi (parecchie) fanno. E' come se la notizia fosse la fascetta rossa che prima o poi cingerà i fianchi di queste trecento e passa pagine: «Gli amori egiziani delle nordestine raccontati da un'ex sindaca.

Non è così, il libro è un po' questo ma non è questo. C'è l'eros, profuso al momento giusto come una donna sa fare, c'è il sesso vissuto dalla parte di lei, il che è anche istruttivo per chi non vuole andare a rileggersi Master and Johnson. Ci sono sentimenti che diventano presto carne e pulsione, atti sessuali importanti e meno importanti che vengono descritti nella loro diversità: con le frasi di tutti i giorni, se sono sesso e basta; con partecipazione letteraria se c'è partecipazione affettiva. Insomma, come càpita nella realtà. Ma queste pagine sono il ritratto di una specie umana e sociologica a noi consona perché visibile ogni giorno: donne e uomini del Nordest, o meglio una fetta ben individuata di umanità locale. Oramai consegnata ad una recente tradizione socio-economica in modo talmente omologo e radicato da diventare “tipo». E' l'imprenditore, sono comunque l'uomo e la donna di successo che si immergono nel lavoro e non hanno problemi economici, per i quali il termine “sacrificio” appartiene forse all'inizio, comunque al passato, e che al presente “si godono” la vita. Insomma, gli arrivati, quelli di successo, quelli che i problemi neanche uno. Clara Caverzan, che fa la maestra e forse con il primo libro non è diventata milionaria, li vede, li conosce, ne scruta la prevedibilità e i costumi, le scelte e gli atteggiamenti. Senza pregiudizi, come umani accanto a lei, con la loro vita mille volte raccontata che corre sui binari dei luoghi comuni, comuni a loro. Lo shopping, il suv, la villa con arredatore incorporato, le vacanze nei posti deputati, le passioni supplementari, basta che siano dispendiose e facciano status.

Bene, in queste pagine, a questi esseri al tempo stesso icona e macchietta viene in qualche modo restituita una dignità interiore. Molto interiore, a dire il vero, perché quasi sempre è l'esteriorità, una superficialità persino impossibile da credere a farla da padrona. Ma insomma, scrive Caverzan dipanando la sua storia e i suoi dialoghi, hanno dei sentimenti anche loro, credono e soffrono quand'è il momento, provano passioni che, per una volta, prescindono dal denaro. Se come appartenenti ad una società sembrano seriali, scontati e deludenti, come individui riprendono un'identità, tornano persone e non gusci di persone.

Il romanzo è sostanzialmente questo, la ricerca della identità di gente che sembra non averla. Certo, c'è la storia di Virginia, trevigiana che si inoltra nei quaranta con un marito che si è inoltrato nei cinquanta. Ed è una storia nella quale confluiscono i racconti, le esperienze, i viaggi e le informazioni che Clara Caverzan ha raccolto durante le sue vacanze egiziane, lei che dell'Egitto è perdutamente innamorata. Ha visto con i suoi occhi cosa succede, quando le donne calano dal nord e incontrano i ragazzi egiziani. Ci ha imbastito sopra una storia plausibile («E' vera», dice lei) che non serve a raccontare amplessi, ma cerca di dirci come siamo - appariamo? - noi di queste parti. Soprattutto le donne: e nei loro confronti il viaggio non si ferma alla descrizione delle azioni, ma prosegue nel cervello, alla ricerca di cause, motivazioni, ragioni. E' il secondo livello dell'indagine - chiamiamola così - di Clara Caverzan. La psicologia femminile, il percorso tra il razionale e l'irrazionale che conduce ai comportamenti, alla sofferenza e alla gioia. Anche qui, senza posizioni preconcette, se non quella indefettibile che anche l'autrice è donna.

Quello che succede dentro a una donna è il vero tema del romanzo: non nel trevigiano piuttosto che sul Mar Rosso, né con i bianchi o con i neri, oppure da sola o nelle diverse compagnie. Ma “dentro” di lei, monade sociale eppure monade, influenzata, sballottata, avvinta magari da tutto quanto succede intorno ma alla fine lei sola protagonista del sentire, del suo vivere. Normale, si dirà, succede a tutti. Così come queste si potrebbe definire pagine di “introspezione psicologica”, pur nella loro forma di romanzo.

Ci sono spunti e spunti, nel fluire di una storia dove Virginia è il baricentro costante. Virginia normale, Virginia delusa, Virginia apatica, Virginia innamorata. «Cosa c'è di più sincero e onesto di un adulterio? Il durante è tutto». Pensa così Virginia, pensa così Clara, sono le esplosioni del pensiero femminile: Quelle stesse femmine che «affondano nella sabbia, a ogni passo elegante, tacchi a spillo di Gucci», oppure vanno a fare le gite in barca issate su zoccoli col tacco alto. Ma si può? Ecco il ritratto, le pennellate della stupidità e le velature della riflessione. Ci si può anche comportare più o meno stupidamente, ma può arrivare qualcosa che ti terremota abitudini, certezze sbagliate, atteggiamenti consueti. Virginia vive per tutto il romanzo, in fondo la sua è sempre una corsa contro la banalità, quella che la fotografia di una vita scontata sembra cucirle addosso.

Naturalmente, l'antidoto c'è. E' l'amore. Habibi vuol dire amore, in egiziano.

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