Una grande Diocesi che abbraccia cinque province

Una singolare clessidra, come suggerisce fin dal primo impatto uno sguardo alla sua mappa: che nel punto di strozzatura tra parte alta e bassa taglia addirittura un paese in due (Camposampiero), assegnandolo parte alla diocesi di Padova e parte a quella di Treviso. E che va dai suoi punti estremi segnati da oggettiva marginalità (Foza sull’altopiano di Asiago a nord, Stanghella nella Bassa padovana a sud), a centri di livello avanzato, a partire dalla stessa Padova, estendendosi in cinque delle sette province venete. Con una tormentata storia secolare alle spalle: dai tempi dei longobardi, che per punire il vescovo che aveva osato opporsi gli smembrarono la diocesi, spartendone i pezzi tra quelle confinanti; alla revisione dei confini operata dagli austriaci nel 1818. Con numeri significativi, che ne fanno una delle più grandi d’Italia: 459 parrocchie raggruppate in 38 vicariati, 1.018 sacerdoti, 1.076.954 abitanti, di cui 1.008.112 battezzati; come dire, la quasi totalità.
E tuttavia, quest’ultima cifra è puramente virtuale. Pur essendo di almeno cinque punti superiore alla media nazionale, la frequenza regolare alla messa domenicale riguarda una persona su tre; la confessione scende addirittura a una su dieci; la stessa adesione alle associazioni del laicato cattolico è sprofondata sotto il 10 per cento. Numeri che riguardano peraltro l’intero Veneto: di quella che era definita fino a tre-quattro decenni fa la sacrestia d’Italia, non sono rimaste neppure le mura. Le vocazioni riflettono questo logoramento: per la prima volta quest’anno, il seminario maggiore di Padova non ha alcun nuovo iscritto; e negli ultimi quindici anni, sono stati ordinati sacerdoti appena un centinaio di presbiteri, come dire una media di sette all’anno. L’ultima spiaggia, se vogliamo, visto che in larga parte dell’Europa e della stessa Italia questi fenomeni si sono manifestati ancor prima; ma il fatto colpisce perché nella cultura del Veneto profondo il triangolo religione-famiglia-lavoro è stato per secoli il collante della società e il suo motore di sviluppo che ha consentito di uscire anche dalle crisi più drastiche. E oggi questa formula non regge vistosamente più.
A lungo potente fattore di integrazione sociale, la Chiesa ha perso progressivamente appeal scadendo, anche tra chi in qualche modo continua a sentirsi legato ad essa, in una sorta di fede fai-da-te in cui le parole della gerarchia vengono vissute e reinterpretate in chiave personale non solo in materia di comportamenti quotidiani inclusi quelli politici, ma perfino in tema di morale e di valori: la coscienza individuale diventa l’unico vero referente. Ne risente fatalmente anche la cellula di base della struttura ecclesiale, la parrocchia: un tempo luogo di riconoscimento collettivo, in cui si saldavano i legami sociali, oggi è diventata un punto di riferimento solo fino all’adolescenza attraverso la catechesi, i sacramenti, il richiamo delle associazioni; poi molti si perdono per strada, e se tra gli adulti superstiti si manifesta un fervore di attività interne a ogni singola comunità, emerge per contro una straordinaria fatica a dialogare tra parrocchie.
Nulla di traumatico. Immersa per la sua stessa ragion d’essere nel mondo, la Chiesa non può non risentire delle sue trasformazioni, delle sue crisi, dei suoi processi di revisione profonda in tempi di mutamento sempre più sincopati e tumultuosi. Gli stessi stili di vita, un tempo profondamente diversi tra città e campagna, oggi tendono a livellarsi, omogeneizzati come sono da un sistema sociale che fa leva sulla moltiplicazione delle informazioni ma anche sull’appiattimento dei valori. A questo si aggiunge l’esplosione dell’immigrazione, di fatto un fenomeno residuale e quasi folkloristico fino all’inizio degli anni Novanta, poi venuto lievitando in modo capillare sul territorio: non c’è praticamente paese della diocesi, neanche il più piccolo, che non abbia nella sua anagrafe cittadini di diversa nazionalità; e in taluni casi lo spopolamento è stato evitato proprio grazie alla presenza di stranieri, come a San Nazario, provincia di Vicenza ma diocesi di Padova, dove gli immigrati sono circa 250 su una popolazione di 1.700 abitanti, provenienti da 24 Paesi diversi, dal Marocco alla Romania, dal Messico alla Sierra Leone.
E’ chiaro quanto e quale sia l’impatto della rapidissima trasformazione dell’ambiente sulle comunità locali: che siano nel grande centro abitato come nel minuscolo paesino, le persone dell’appartamento accanto, della condivisione del banco di scuola o del posto di lavoro, della vicinanza nelle corsie di ospedale, parlano lingue diverse e spesso lontane; hanno stili di vita e modelli familiari radicalmente altri rispetto ai nostri; praticano le religioni più varie, che vedono convivere islamici e induisti, sikh e buddisti, animisti e taoisti, perfino varianti significative del cristianesimo: come nel caso delle nuove chiese pentecostali che proliferano in Africa, ma anche in Asia e in Sudamerica. Così accanto alle chiese e ai campanili ancorati a una secolare tradizione, sorgono moschee, templi e pagode che accanto ai momenti liturgici si fanno carico anche di una pluralità di funzioni sociali: di fatto, l’equivalente delle parrocchie. Una diversità che non può non suscitare inquietudine, tradotta in non pochi casi in vera e propria ostilità che attraversa le stesse comunità cattoliche: come dimostrano le attuali vicende legate ai profughi, dove la parola del Vangelo entra in conflitto con le parole della strada.
E tuttavia, malgrado tutti questi tumultuosi processi, la figura del sacerdote, nella diocesi di Padova come in tutto il Veneto, mantiene ancora un suo forte richiamo: se una persona su tre va a messa, sei su dieci continuano a vedere nel prete una figura di riferimento, specie quando sono in gioco i processi educativi, le tappe fondamentali della vita delle persone dalla nascita alla morte, le situazioni crescenti di marginalità non solo economica. A questo si accompagna un altro fenomeno degno di attenzione: in nessun’altra parte d’Italia il volontariato è così presente e così diffuso. Un sedimento importate, forse addirittura essenziale, in una società che sarà sempre più chiamata a un’esigente e dura scuola di convivenza tra diversità: stretta nell’alternativa tra impararla o subirla. Senza terze vie di sorta.
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