Via la polvere dall’Ultima Cena

MILANO. Dal 14 al 19 giugno il Museo diocesano di Milano espone L’ultima cena del Tintoretto. L’opera da sempre nella chiesa di San Polo a Venezia, realizzata fra il 1574 e il 1575, è stata oggetto di un attento restauro che ha dato nuova vita alla tela in soli tre mesi grazie all’équipe diretta da Giulio Manieri Elia direttore del Museo di palazzo Grimani e vicedirettore delle Gallerie dell’Accademia. Il dipinto era appannato da un sottile strato biancastro sia per la polvere che si era accumulata in superficie sia per il degrado dovuto alla vernice utilizzata nell’ultimo restauro che ossidandosi e ingiallendo aveva alterato la cromia originale del quadro. Le prevalenti campiture scure infatti, avevano perso profondità. Le zone chiare apparivano prive di smalto e di luminosità. Il pigmento azzurro del cielo a destra aveva assunto un colore verdastro. Gli edifici raffigurati sullo sfondo erano diventati troppo gialli. Notevoli poi le abrasioni riscontrate e le pennellate schiacciate che Tintoretto aveva voluto in rilievo.
L’intervento preliminare di restauro ha quindi eliminato le polveri che si erano depositate sul davanti e sul retro utilizzando pennelli e spugne immerse in acqua contenente tensioattivo. E’ stata poi rimossa la vernice ossidata con l’aiuto del solvente adeguato. L’ultima operazione è servita a reintegrare le molte abrasioni e le piccole parti prive di pellicola pittorica. Nella produzione del maestro veneziano l’opera è fondamentale perché Tintoretto introduce un’importante novità nell’iconografia dell’ultima cena: decide di abbandonare la rappresentazione del tradimento di Giuda a favore dell’ Istituzione dell’Eucaristia sub specie panis. Rispettando così il decreto del Concilio di Trento del 1551 che aveva ribadito come il corpo di Cristo fosse contenuto sotto la sola specie del pane. La creazione di una nuova iconografia, fa notare nella sua esauriente scheda storico critica Margaret Binotto, è da leggere insieme all’organizzazione spaziale dove le piastrelle del pavimento, la tavola in angolo, il conflitto chiaroscurale tra la luce in primo piano e lo sfondo immerso nell’ombra suscitano un intenso emotivo rapporto dialettico.
I protagonisti dell’evento ripercorrono le indicazioni evangeliche ma nello stesso tempo veicolano significati latenti e simbolici. Cristo alzandosi improvvisamente spalanca le braccia sia per dare il pane ai due discepoli sia per anticipare la prossima morte sulla croce. Ai due che si piegano in avanti per ricevere il pane consacrato si contrappone il movimento opposto degli apostoli che si staccano dalla mensa pasquale per dar da mangiare al mendicante in primo piano e alla bambina sulla destra. Al rito partecipa anche Giuda riconoscibile sulla sinistra. Con la sua bisaccia attaccata alla cintura e la mano artefice dell’imminente tradimento appoggiata sul tavolo. I compagni non riescono a decodificare le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni quando sollecita il malvagio a realizzare la sua azione criminosa. Pensano che Giuda, delegato alla cassa, abbia ricevuto il compito di comprare qualcosa per la festività pasquale o per dare anche lui qualcosa ai poveri. Forse è questa l’interpretazione voluta da Tintoretto. La distribuzione del cibo ai bisognosi, che nella tela ha una posizione dominante, rimanda ad una antica usanza veneziana. Durante la processione del Corpus Domini, ricorrenza fondamentale nell’attività delle Scuole del Santissimo Sacramento, «ogni membro del Senato aveva accanto a sé un povero da accudire».
Fausto Politino
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