Addio Del Giudice, una voce dal silenzio e un’eredità di pensieri, dubbi e bellezza

Diventando scrittore, Daniele Del Giudice aveva scelto Venezia come luogo per vivere. E nella Venezia diventata assolutamente “sua” è morto, dopo molti anni di vita inconsapevole a causa di un Alzheimer precoce che gli aveva tolto ogni possibilità di scrivere. Aveva 72 anni e sabato Venezia aveva già deciso di rendergli onore, con un Campiello alla carriera, che lo riconosceva come uno dei maestri, per molti il maestro, della sua generazione. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, lo ha ricordato come scrittore «prezioso, di rara sensibilità narrativa e letteraria». Walter Veltroni che in veste di presidente della giuria del Campiello questo premio aveva fortemente voluto oggi dice che quello di sabato «non sarà un premio alla memoria, ma un riconoscimento attuale per le storie e le parole che nei suoi testi ha scelto», perché «il suo lavoro parla ogni giorno e ogni giorno regala agli altri pensieri, dubbi, bellezza». La cerimonia si aprirà con un ricordo della sua figura.
Daniele Del Giudice è stato scrittore del dubbio in anni che cominciavano a semplificare e a volere certezze. Sintetizzando bene, Claudio Magris diceva che in lui c’era «un impaccio metafisico», che la sua scrittura raccontava «lo scarto tra la precisione della cartografia e la superficie curva della terra deformata dalla pur rigorosa carta geografica, tra la necessità di dire e il silenzio, tra le cose palpabili e amabili e la loro conoscenza o espressione che le dissolve, fra l’amore per la vita e lo sgomento che essa incute».
Del resto era una vita, la sua, cominciata già con difficoltà. Nato a Roma nel 1949, Daniele Del Giudice raccontava di aver avuto un’infanzia complessa, vissuta spesso in collegio. Il padre, morendo, gli aveva lasciato però in eredità una grande macchina da scrivere, che era diventata un po’ la sua vita. Precocemente ha cominciato a scrivere per i giornali, entrando a Paese Sera, poi il suo primo libro, “Lo stadio di Wimbledon” era finito in mano a Italo Calvino che non solo lo aveva pubblicato, ma aveva voluto che Del Giudice entrasse nel ristretto gruppo di consulenti di Einaudi, per cui ha pubblicato anche i pochi suoi altri libri. Era un grande scrittore, ma anche un ottimo lettore, un operatore culturale di grande passione come dimostra “Fondamenta” , la rassegna di incontri che nel 1999 aveva creato a Venezia, con l’intento di fare tornare la città lagunare uno dei centri delle relazioni culturali mondiali.
Su quali siano i testi maggiori di Daniele Del Giudice ci sono pochi dubbi tra gli studiosi; certo i due romanzi, “Lo stadio di Wimbledon” (1983) e “Atlante occidentale” (1985) sono momenti importanti di svecchiamento del mondo letterario italiano, ma sono le due raccolte di racconti, “Staccando l’ombra da terra” (1994) ispirato a un istruttore del Nicelli e “Mania” (1997) a mostrare la vera forza della scrittura di Del Giudice. Per e con Marco Paolini aveva scritto l’orazione civile “I TIGI. Canto per Ustica” (2009) scritto per e con Marco Paolini Entrambi i libri entrarono nella cinquina del Campiello con grande favore critico, anche se poi la giuria dei lettori ne preferì altri, perché il rigore di Del Giudice, il suo distillare parole con enorme attenzione, non lo rendeva popolare. Lui non se ne dispiaceva troppo, sapeva che la sua scrittura aveva bisogno di tempo, che la letteratura richiede pazienza.
Nei tanti ricordi, di scrittori e no, che si susseguono in queste ore ci sono due elementi ricorrenti. Il primo è la gentilezza, che era il suo tratto distintivo di persona. L’altro è la esattezza, che è invece il tratto distintivo come scrittore, l’aspirazione che condivideva con Italo Calvino.
Il Campiello sabato premierà lo stesso Daniele Del Giudice, la sua carriera: le sue parole restano. —
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