Il boss delle stragi di mafia contro il giornalista Deaglio e il libro stampato a Trebaseleghe
Graviano e il fratello denunciano lo scrittore per diffamazione. Il pm chiede l’archiviazione, ma l’ergastolano si oppone

Uno dei boss delle stragi di mafia con il fratello cita per diffamazione aggravata il giornalista Enrico Deaglio e il suo editore, il pm chiede l’archiviazione, l’ergastolano non ci sta e si oppone.
La vicenda verrà discussa a metà gennaio in tribunale a Padova, lo ha deciso il gip Laura Alcaro. Continua il braccio di ferro fra i fratelli Giuseppe e Benedetto Graviano contro lo scrittore e saggista, noto per le sue inchieste di impegno civile, e che dal 2012 vive a San Francisco.
Il libro contestato
Al centro del contendere il libro del 2022 di Deaglio, “Qualcuno visse più a lungo – la favolosa protezione dell’ultimo padrino”: il volume, edito da Feltrinelli, è stato stampato alla Grafica Veneta di Trebaseleghe, dettaglio che ha portato il procedimento nella città del Santo. Deaglio è difeso d’ufficio dall’avvocata Paola Miotti, le ragioni di Giuseppe Graviano sono invece sostenute dalla legale Rita Petricca e quelle di Benedetto dall’avvocato Mario Murano.
Che cosa contestano i Graviano? Nello specifico, si fa riferimento ad alcuni passaggi. Deaglio a pagina 94 del libro afferma: «Il clan Graviano, in cui la vedova V. Quartararo, la madre dei quattro figli, era sicuramente al vertice del potere decisionale, decise di affidare il ruolo di capofamiglia a Giuseppe, non ancora ventenne». Ma la legale del boss fa notare che «l’affermazione non trova alcun riscontro né fattuale né processuale. Alla signora Quartararo non sono mai state contestate condotte del tipo descritto dall’autore né da parte di qualche collaboratore di giustizia né dalla Procura della Repubblica né ciò è mai confluito in provvedimenti giurisdizionali».
E poi, ancora: si prendono le distanze dall’omicidio di Filippo Quartararo dal momento che l’uccisione «non è provata ed è anzi smentita dalle risultanze processuali». L’avvocata aggiunge: «In merito al sequestro Sindona, l’autore attribuiva la responsabilità di tale evento al padre del Graviano, Michele. Circostanza questa, mai provata né emersa da atti processuali».
Benedetto, invece, nella sua denuncia-querela mette nel mirino il racconto dell’omicidio di Serafino Ogliastro a pagina 212: l’uomo sarebbe stato convocato «nell’autosalone Renault di Benedetto Graviano» dove poi venne torturato e ucciso. Secondo il maggiore dei Graviano, Deaglio avrebbe in questo modo alluso a un suo coinvolgimento nel delitto.
Il pm aveva chiesto l’archiviazione
Il pubblico ministero Sergio Dini aveva chiesto l’archiviazione mettendo in fila le condanne subite da Benedetto per associazione di tipo mafioso, bancarotta fraudolenta ed estorsione tentata in concorso, e aveva evidenziato che «la reputazione era già compromessa in epoca anteriore alla pubblicazione del libro». E poi aveva evidenziato che Deaglio si limita nel testo a menzionare il luogo in cui è avvenuto l’omicidio di Ogliastro, «fatto che non è mai stato smentito da alcuno».
Per quel che riguarda la posizione del boss in carcere, Dini osserva che «la narrazione del libro non appare idonea a ledere la già compromessa reputazione del querelante nel contesto informativo, non solo locale, ma anche pubblico, nazionale e internazionale».

E nelle conclusioni faceva notare che in fondo Deaglio attribuisce ai querelanti «fatti che non esorbitano in alcun modo dal profilo criminale in cui questi già si trovano notoriamente avvinti prima della pubblicazione e che il clamore di tali profili criminosi si era già in precedenza manifestato e continua ad oggi a manifestarsi».
In sostanza, il libro sarebbe «privo di offensività in concreto» e Deaglio – secondo il procuratore della Repubblica – ha semplicemente esercitato «il diritto alla divulgazione di notizie oggettivamente utili senza che tale narrazione possa integrare una lesione della reputazione personale dei querelanti».
Chi ha ragione? Se ne discuterà in udienza camerale il 15 gennaio prossimo. —
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