Da “asintomatico” a “zona rossa”, l'alfabeto che narra l’epidemia di Covid

Durante l’epidemia termini scientifici, acronimi e inglesismi sono entrati nella quotidianità delle persone  

PADOVA. «Io penso positivo...» cantava Jovanotti molto prima del 2020, l’anno che più di tutti potrebbe interpretare una delle nefaste predizioni dei Maya. Ma proprio durante questo sconvolgimento globale la parola “positivo” ha completamente cambiato accezione.

Perché, oggi, essere positivo vuol dire aver contratto il coronavirus: questo significa, nella migliore delle ipotesi, essere alle prese con l’isolamento, nella peggiore una persona a cui ci si riferisce al passato. Ma il Covid non si è abbattuto come una furia solo negli organismi della gente, ne ha invaso anche le menti, modificandone profondamente il linguaggio, dalla A alla Z. Ha introdotto nuove parole, cambiato il significato ad alcune di quelle vecchie e, ancora, saccheggiato il buon vecchio vocabolario inglese, tanto utile quando c’è bisogno di un colpo a effetto.



Ce n’è per tutti i gusti, a partire dal principio, perché prima dello scorso febbraio
la parola “asintomatico”
veniva usata giusto in corsia, ché in fondo nessuno dibatte su qualcosa che non sa di avere, mentre nella maggior parte dei casi, qui in Veneto, la parola “bollettino” si usava solo per indicare, in qualche raro caso, la ricevuta della bolletta (
gheto pagà el boetin?
).

Ma è la lettera C quella che quest’anno ha regalato le soddisfazioni più grandi, aprendo una finestra sul mondo della scienza e mettendoci di fronte al famigerato “coronavirus”, che ti fa ammalare di “Covid” e se sei in un “cluster” sei nei guai, almeno fino a che la “curva dei contagi” non cala.

Vocaboli, saluti e sorrisi mutati: tutti i tipi di linguaggio ai tempi del Coronavirus
Alcuni anziani con mascherina seduti in piazza Castello. Torino 08 ottobre 2020. ANSA/TINO ROMANO

Ma non finisce qui: perché a inizio pandemia abbiamo dovuto cominciare a distanziarci per evitare di finire centrati dal “droplet”, il più classico sputacchio da cui nella vita siamo stati investiti tutti in maniera più o meno imbarazzante.

E questo non è nemmeno il peggio, a meno che, ovviamente, l’interlocutore sia positivo. L’incubo peggiore sono forse gli acronimi, o quello che rappresentano in questa “pandemia”, dal “Dpcm” (decreto del consiglio dei ministri) alla Dad (didattica a distanza): poche lettere in grado di suscitare brividi profondi lungo la schiena di chiunque abbia un figlio, un negozio o una qualunque forma di vita attiva.

Ed eccoci alle parole magiche, quelle che ci fanno sentire tutti un po’ scienziati, almeno nelle nostre chiacchiere da bar (senza assembramenti e rigorosamente prima delle 18): qui, come dal parrucchiere o dalla manicure, possiamo disquisire con un certo piglio di “epidemie”, “focolai”, “Covid Hospital” e “indice di contagio” (o Rt se vogliamo veramente fare colpo, ma dipende sempre dalla platea).

E, ancora, se sia meglio la “mascherina” chirurgica o la FFP2, condannando chi la porta come scaldacollo o sulla fronte a mo’ di vezzo, anche se adesso – hai sentito? – i test li fanno anche le “Usca”, le unità speciali di continuità assistenziale: un nome che fa impressione tanto quanto i medici vestiti da astronauti per pungolare i nasi usando un lungo cotton fioc.

Ed ecco un altro fantasma della primavera passata che incombe sul Natale futuro, il famigerato “lockdown”, che ti blocca lì dove sei, imprigionato ad aspettare che passi la buriana, attaccato al telefono brontolando per le lunghe attese per avere l’esito di un “tampone”, se sia meglio il “molecolare” o il “sierologico”, ma ormai chi non conosce la differenza? In molti, in realtà, e sono i più divertenti da ascoltare.

Del resto, l’uso di queste parole ci dà la sensazione di essere tutti un po’ “virologi”, “immunologi”, “epidemiologi”, ciascuno con un’opinione diversa, proprio come quelli veri.

Nell’altalena delle parole allo specchio, essere “negativizzato” è bene, mentre, ora come un tempo, non c’è catastrofe planetaria che possa raddrizzare il significato di “negazionista”.

Nel frattempo, torna la musica di Jovanotti che mai avremmo creduto profetica quando cantava «Niente e nessuno al mondo, potrà fermare, quest’“onda” che viene e che va».

O almeno così sembra in certi giorni. L’importante è non finire in “rianimazione”, un luogo diventato incredibilmente familiare in questi mesi, con l’aggravante che quasi non ci fa più effetto dissertare del numero dei ricoverati tra la vita e la morte, ignorando, più o meno coscientemente, che si tratta di persone passate per una porta non sempre girevole. Meno spaventoso, ma sicuramente sgradevole è finire in “quarantena”, altro termine completamente desueto ai più, che suscita quasi la stessa claustrofobia di ritrovarsi nella famigerata “zona rossa”, che per molti per gli anni a venire resterà associata a Vo’, paesino sconosciuto all’universo mondo al di fuori del Padovano fino allo scorso febbraio. Tanto che molti ancora non lo sanno scrivere correttamente.

Queste sono tutte parole destinate a restare con noi a lungo, forse addirittura insinuandosi definitivamente nella quotidianità, pur utilizzate con una minor frequenza.

E in fondo sarebbe anche auspicabile tenerle con noi se servissero da monito per il futuro, in memoria della necessità di ricorrere a parole diverse per affrontare una vita differente, più difficile e con meno risate. In attesa che cambi, perché, come cantava Jovanotti, novello quanto insospettabile oracolo, in “Penso positivo”, «io credo soltanto che tra il male e il bene è più forte il bene». —


 

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