Dallo scatolone del Natale spunta il passato: addobbi, ricordi, rimpianti, l’essenza di noi

La pecora gigante e l’uccellino di latta. Era bello quel presepe? Era bello quell’albero? No, ma erano unici e tanto bastava
Un presepe e un babbo natale appeso all’albero: ognuno ha uno “scatolone del Natale” che conserva addobbi, statuine e ricordi
Un presepe e un babbo natale appeso all’albero: ognuno ha uno “scatolone del Natale” che conserva addobbi, statuine e ricordi

IL RACCONTO

Saranno feste strane e diverse, ma saranno comunque feste, e vale la pena viverle. Grazie alle limitazioni, quest’anno ho avuto il tempo per fare il presepe con calma. Di solito devo ritagliarmi un pezzo di pomeriggio per recuperare, già con la pressione alta e il nervoso che incombe, lo “scatolone del Natale” dal sottoscala in garage.

Non so se esistano persone così ordinate e razionali da riporre tutti gli addobbi con precisione per l’anno successivo. Forse perché smontare l’albero e incartare le statuine non è mai un’operazione allegra, di solito la eseguo in fretta e furia. E così l’anno dopo, quando strappo lo scotch che trattiene a malapena le pareti di cartone dello scatolone natalizio, il primo pensiero è “Non ce la farò mai”.

San Giuseppe mutilato

Soprattutto mi manda in bestia il groviglio di festoni per l’albero: so già che non sarà facile far ritornare la matassa informe alla sua originale funzionalità, e so che anno dopo anno questa operazione rende il serpentone argentato sempre più spelacchiato, come il boa di piume di una vecchia prostituta felliniana.

Le statuine del presepe sono invece motivo di orgoglio: comprate tutte assieme, in un mercatino di Natale, una volta piazzate sul muschio fanno la loro figura. Sono poche, stilisticamente omogenee. Coerenti. L’unica pecca è la mano di san Giuseppe: nel trasporto a casa si è rotta (va ben: l’ho rotta) e ho dovuto incollarla con l’attaccatutto.

Da lontano l’effetto è sostenibile, ma da vicino il castissimo sposo pare un mutilato della Grande Guerra. Pure l’albero è molto bello. È di quelli bianchi: una volta decorato con le luci a led bianche, con il suddetto festone argentato e con le palle di vetro azzurre e trasparenti dà un’impressione di algida pulizia, di purezza siderale. Quando l’operazione di allestimento del presepe e dell’albero è completata, il soggiorno si mostra proprio bello.

Dirò di più: pare preso da quelle pubblicità di cioccolatini, o di panettoni, nelle quali giovani donne e signori eleganti stanno seduti su immacolati divani in pelle, illuminati da una luce calda e soffusa, sorridendo soddisfatti a buon diritto della propria perfezione. Contemplo un paio di minuti tale equilibrio estetico, e poi procedo. Colline di cartapesta Sì perché lo scatolone non è ancora vuoto. Quanto è stato fin qui preparato è un semplice scheletro. È pura struttura, senza anima, senza carne.

E ora la carne arriva: per il presepe si tratta degli animali. Sono il frutto di lasciti e transiti generazionali, e di dispute ereditarie: la mia preferita è una pecora. È grande esattamente quanto il pastore che tiene in mano la lanterna, ma pure lei deve essere piazzata sul muschio. Anzi, questa pecora ha storicamente più diritto al presepe di tutte le altre statuine, perché è l’unica testimone giunta a me del presepe titanico di mio nonno paterno.

Tutto il resto dell’anno erano i nonni padovani ad avere a che fare con noi, ma per Pasqua e Natale si andava dai nonni ferraresi: appena entrato subito correvo a cercare dove il nonno avesse fatto il presepe. Era qualcosa di gigantesco, almeno ai miei occhi, addirittura con le colline di cartapesta colorata di verde, e col ghiaino bianco a tracciare una fitta rete di sentieri. Era bello quel presepe? Macché, ma la sua bellezza sinceramente non mi interessava per nulla. Era unico, e tanto bastava. C’era un affollamento demografico incredibile, più che di Notte Santa pareva una sagra di paese, un’uscita dallo stadio.

Poi le proporzioni erano rispettate nei pressi della capanna, ma saltavano allegramente già nelle seconde file, dove vecchi ciabattini lavoravano immobili accanto a galline grandi come un’automobile e a cammelli grandi come galline. Ed era bello così, perché standomene lì, a mangiarmi con gli occhi quella cornucopia disomogenea di piccoli simulacri di vita, le storie nascevano da sole, non dovevo nemmeno fare la fatica di immaginarmele. Un barattolo di neve. E c’era la neve. Mio nonno acquistava ogni anno un barattolo di neve spray, e lo vuotava, con religiosa precisione, sullo sfondo del presepe. E così alcune statuine, anno dopo anno, si trasformavano in pupazzi bianchi, e mi domandavo chi mai ci fosse sotto quel cumulo di materia plastica, se una pastora avvolta nel suo scialle, o una palma pelosa piantata su una base di sughero.

Come corrente di fiume

Anche il mio albero di Natale, troppo algido e puro, deve ricevere il battesimo della tradizione familiare: qui però la fonte è l’albero dei nonni materni. Loro non facevano un presepe all’altezza dei nonni di Ferrara, o meglio, lo facevano, ma mentre i nonni di Ferrara avevano 3 nipoti che rispettavano i loro arredi natalizi, quelli di Sant’Angelo di Piove di nipoti ne avevano 14, e non passava pomeriggio senza che ne arrivassero un paio a demolire le baracche di Betlemme, o a “mettere a dormire” pastori e pecore. L’albero, invece, era interessante.

Prima di tutto perché attaccati ai rami c’erano quei cioccolatini a forma di babbo natale, cavi all’interno, cui facevamo la posta con la pazienza del cacciatore. E soprattutto sull’albero dei nonni padovani c’erano gli uccellini. Quegli uccellini costituiscono nella mia mente il non plus ultra del simbolo natalizio. Non c’è niente che profumi di Natale quanto quegli uccellini di latta, con una molla ossidata al posto delle zampine, e con una lunga piuma colorata e vera (o vera ai nostri occhi) per coda.

Ora uno di quegli uccellini troneggia impavido sull’albero bianco, e a un occhio ignaro potrebbe apparire stonato, un aperto insulto al rapporto aureo del Natale. Ma così vanno le cose quando si parla di famiglia: hai a che fare con la tradizione, e la tradizione, come le correnti dei grandi fiumi, ti porta con sé, e non puoi farci niente: o esci una volta per tutte, o ci stai dentro, nel bene e nel male.

La piccola cosa che non ci sta Spero che ognuno di noi, al di là delle convinzioni e delle scelte, possa continuare ad avere, a casa propria, un oggetto, un soprammobile, un orpello che non c’entra niente, che dovrebbe essere tolto di mezzo perché “non ci sta”, come la pecora titanica o l’uccellino stonato. Ma lo teniamo, lo rancuriamo, ed è giusto e bello così, perché, grazie a Dio, non siamo prodotti razionali di equilibrio estetico e perfezione formale.

Siamo impasti doloranti di vita e morte, affetti storti, rapporti folli per chiunque non li viva, rimpianti e ricordi stupendi, e la nostra famiglia, mentre la odiamo e la amiamo senza riuscire a risolverci, continua a parlare di noi, e noi continuiamo a parlare di lei, anche solo con un uccellino spiumato che per trecentotrenta giorni all’anno se ne sta buono, al buio, nello scatolone natalizio, nel sottoscala del garage. —

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