Fondazione Nord Est in crisi: sfida al Veneto o è declino

Il think tank di Confindustria da sei mesi è senza direzione scientifica. Unire le forze di associazioni e istituzioni per un unico centro di ricerca strategico | LEGGI Tutti gli articoli sul tema
Stefano Micelli
Stefano Micelli

Da sei mesi la Fondazione Nord Est (FNE) è senza direttore scientifico. Dopo il cambio al vertice di Confindustria Veneto, sul centro di ricerche economiche e sociali più importante dell’area è calato il silenzio. Stefano Micelli, nominato direttore scientifico a fine 2013 dopo la lunga reggenza di Daniele Marini, non è stato rinnovato, né sostituito. Nel frattempo la struttura di ricerca si è ridotta all’osso, con un solo ricercatore in pianta stabile. Per quanto capace, è impensabile possa da solo gestire l’intera attività. La stessa rete dei collaboratori, un tempo estesa a decine di esperti, si è oramai dissolta. L’ultima ricerca importante della FNE (sulla nuova industria digitale in Italia) si è chiusa due anni fa.

Fondazione Nordest, imparare dagli errori
Auro Palomba

L’osservatorio permanente sull’economia (Open), che per quindici anni ha assicurato informazioni aggiornate sulle trasformazioni produttive, sociali e demografiche dell’area, è stato smantellato. Il Rapporto 2017, presentato lo scorso febbraio a Confindustria Vicenza, si è in realtà trasformato in un atto di sottomissione culturale del Nordest a Milano. Un presagio, del resto, di quanto stava avvenendo sul fronte finanziario, con l’umiliante svendita delle Popolari venete a Intesa San Paolo. Ben diversi i toni, solo due anni prima, quando Micelli e Zuccato avevano lanciato il “manifesto per la nuova manifattura” , un progetto di riscatto politico e culturale del Nordest dopo la lunga crisi. L’oblio in cui è subito precipitato quel manifesto, e il vuoto di idee che ne è seguito, certifica la parabola di una classe dirigente.

La FNE, è bene ricordarlo, ha rappresentato uno dei più ambiziosi progetti culturali maturati dalle forze economiche e sociali del Triveneto negli ultimi 20 anni. Nata nel 1998 da un accordo fra Confindustria e Unioncamere di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trento e Bolzano, FNE aveva innanzitutto l’obiettivo di cambiare l’immagine di una regione che si percepiva potenza industriale senza tuttavia essere in grado di affermare una propria identità culturale. Ilvo Diamanti, che della FNE è stato l’ispiratore scientifico, ha ripetuto in più occasioni il senso della missione: il Nordest doveva superare quella condizione di periferia industriale – collocata a Nord di Roma e a Est di Milano – per essere invece riconosciuto, in positivo, come modello di sviluppo possibile. Un modello di piccole imprese e piccole città, proiettate nel mondo, in particolare a Nord e a Est dell’Europa. Un’area, perciò, distinta da Roma, ma anche da Milano, in grado di raccogliere la sfida politica per l’autonomia e la sussidiarietà. La nascita della FNE segnava dunque un’affermazione di consapevolezza politica dei gruppi dirigenti dell’economia civile.

Di questo progetto oggi rimane ben poco. Lo scenario appare ancora più desolante se guardiamo alla disgregazione in corso di quasi tutte le istituzioni di ricerca economica e sociale in Veneto: dalla Fondazione Corazzin (Cisl), all’Ires Veneto (Cgil), al Centro Studi Unioncamere (Camere di Commercio), al Coses (Provincia e Comune di Venezia), per non dire di Veneto Innovazione e prima ancora dell’Irsev (Regione Veneto). Al di fuori dei circuiti accademici, sempre più vincolati a logiche valutative estranee ai temi locali, solo due realtà hanno mantenuto una qualche capacità di produrre ricerca riconoscibile a livello nazionale: la Fondazione Moressa, sostenuta da Confartigianato e specializzata sull’economia dell’immigrazione, e l’Osservatorio Veneto Lavoro, che ha creato una miniera informativa sull’occupazione, in gran parte ancora da sfruttare. Per il resto il Veneto è tornato a giocare da free rider della ricerca. Un ruolo apparentemente comodo, ma nel lungo periodo assai rischioso, concesso solo a chi si è rassegnato ad accettare le regole altrui. La rovinosa caduta delle banche popolari è lì a ricordarcelo con la cruda realtà delle ricchezze perdute.

Per quanto possiamo accettare questa deriva? L’appello alle forze economiche e sociali del Nordest è, allora, di trovare un accordo per fondare un think tank che aiuti a riflettere sui cambiamenti demografici, geo-economici e tecnologici che abbiamo di fronte. Non si tratta, sia chiaro, di promuovere l’ennesimo documento di esperti, ma di investire con serietà e continuità nella produzione di conoscenze utili a valorizzare la società di piccola e media impresa. Una struttura leggera, ma non troppo, autonoma e autorevole, da realizzare coinvolgendo le università e studiosi internazionali, con il compito di promuovere dossier su temi di interesse strategico attraverso finanziamenti finalizzati. Il problema non è la mancanza di risorse economiche. Ma di coraggio politico.

Argomenti:economia

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova