Giorgia Barichello: "Così realizzoi sogni degli architetti"
A 29 anni, dopo gli studi all'estero, è direttore commerciale dell'azienda di famiglia che produce meccanica di precisione

Giorgia Barichello tra i genitori
«Papà, o mi dai i soldi per andare a Londra o parto con l’autostop». Seduta alla scrivania, negli uffici dell’azienda di famiglia alla periferia di Vigonza, dove tra villette e capannoni resiste uno scampolo di campagna, Giorgia Barichello sorride al ricordo. «Era il giorno dei miei diciott’anni, non mi ero ancora diplomata al Calvi e già mi vedevo proiettata nel mondo a viaggiare, imparare». Ventinove anni, un metro e 74 d’altezza per 54 chili di peso, capelli biondi ed occhialoni da vista, che danno autorevolezza al suo viso di ragazza, il responsabile commerciale della Carlo Barichello meccanica di precisione indossa jeans a vita bassa, cintura bianca D&G, giacca blu confindustriale e svetta su tacchi, che le rendono le gambe interminabili. Il telefono squilla di continuo e lei con voce accattivante rassicura clienti, sfoglia cataloghi per confermare le ordinazioni, sottolinea la bontà dei prezzi.
Alla fine papà si è deciso a finanziarla?
«Ha fatto un buon investimento. Era il Luglio del ’96 e sono partita per l’Inghilterra per studiare l’inglese. Nel giro della scuola ho conosciuto il vicepresidente della National Gallery, che mi ha fatto amare Londra perdutamente. Tant’è che l’estate successiva vi sono tornata e ho compiuto la prima esperienza di lavoro alla been’z-com, un’organizzazione di banner pubblicitari su Internet, con un avveniristico sistema di moneta digitale voluto da giganti quali Larry Ellison di Oracle, Francois Pinault di Pppr Vivendi Universal e imprenditori del calibro del nostro Carlo De Benedetti e del giapponese Hikari Tsushin. Mi occupavo di tutto e niente, ma era fichissimo lavorare a Belgravia. Ci ero capitata perché la been’z aveva la sede accanto alla “scuola di parolacce”, cui mi ero iscritta. Nulla di scandaloso: a dirigerla era un purista dell’inglese, secondo cui per essere padroni d’una lingua bisogna conoscerne le espressioni più colorite».
Dopo ragioneria solo lavoro e niente scuola?
«Certo che no. In Italia mi ero iscritta alla European school of economics e dopo aver superato le prime prove a Vicenza, ho terminato gli studi alla Nottingham trent university con la tesi: “Da Internet ad e-commerce: nuovi sistemi di organizzazione d’impresa. Per inciso: lì ci studiava il mio primo, grande amore. Ho sempre coniugato lo studio con estati di lavoro».
L’estate successiva a been’z e parolacce?
«Quattro mesi nella sede madrilena della Ebara, multinazionale giapponese di pompe per estrazioni petrolifere. Dove ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di Pedro Velasco, attuale responsabile europeo dell’azienda, che mi ha fatto amare alla follia il marketing strategico».
Sarebbe?
«Significa partire dall’analisi interna dell’azienda e da quella esterna (mercato, clienti, competitors ecc) per ricavarne i punti di forza e di debolezza, le opportunità di business, il posizionamento sul mercato: informazioni, con cui alla fine elaborare strategìe. Un buon imprenditore lo fa comunque, ma da noi il processo è spesso legato ad informazioni reperibili con facilità, piuttosto che a quelle utili davvero».
La seconda estate?
«A Barcellona, sede spagnola della multinazionale israeliana Iscar, produttrice di utensili speciali. Lì ho lavorato al sito ed imparato come si gestiscono i disegni, dalla nascita alla realizzazione».
La terza?
«Di nuovo alla Ebara, questa volta ramo assicurazione crediti; ma vi ho anche frequentato il mio primo corso di disegno meccanico».
Laurea?
«Nel Luglio 2002. Poi due mesi filati di sonno, ero stremata».
Primo impiego da dottoressa Barichello?
«Stanca di viaggiare senza sosta lontana da casa, quando la Sermen di Albignasego, che produce sacchetti in tessuto, mi ha contattata, ho accettato. Non ci crederà: per impiantare ex-novo l’ufficio estero».
Recidiva. Come se l’è cavata?
«Ancora non ho capito come mai a 24 anni il proprietario mi abbia dato carta bianca. Servendomi di Internet e di un telefono, sono partita dai paesi di lingua inglese e spagnola, creandomi in breve una forte rete di clienti; ma avevo anche un agente in Francia e uno in Germania. Ho sviluppato poi il mercato in Usa, Corea, Giappone e persino in Cina via Usa, favorita dalla mia capacità innata di instaurare, anche a distanza, ottimi rapporti interpersonali. Al mio interlocutore cerco di trasmettere la sensazione che sono pura», che siamo in due a trattare: io come azienda e lui come cliente dobbiamo guadagnarci entrambi, in un clima di fiducia reciproca. Avevo già aperto contatti con l’Australia e col Sud America (adoro le danze caraibiche), quando di colpo mi sono detta: alt, voglio scendere. A parlare cinque lingue da mattina a sera ed a smettere di lavorare quando il mio datore di lavoro veniva a staccarmi il filo del computer, non avevo più vita. Sino ad allora avevo avuto morosi “pro tempore”, uno di essi mi aveva fatto notare: “Mi pare di stare assieme ad una hostess”. In più mio padre mi pressava: “Traditrice, io ti ho fatto studiare e tu vai a lavorare per gli altri”. Sa, sono figlia unica. La mamma invece mi ha sempre spalleggiata».
Così?
«Così a fine 2005 sono entrata all’ufficio tecnico della Barichello».
Ci presenta l’azienda?
«L’hanno messa su nel ’79 il papà, da sempre appassionato di meccanica e la mamma, che si occupa della parte finanziaria. Costruiamo componenti meccanici di precisione per conto terzi e forniamo parecchie multinazionali, che vanno dal ramo architettura a quello alimentare e bio-medicale. Un nome? Per la Ferrari 430 GT costruiamo una cinquantina di particolari. Nel ramo costruzioni poi, dico sempre che noi “realizziamo i sogni degli architetti”».
Qualche esempio?
«La prima pensilina in vetro e componenti Barichello, fabbricata per un albergo in Australia, portava la firma di Renzo Piano. Con la Tosoni di Verona abbiamo realizzato per le vetrate dell’aeroporto Mario Mameli Elmas di Cagliari degli attacchi in acciaio a forma di ogiva, che sono piccoli capolavori di design e tecnologìa. Per la Nardini di Bassano, in collaborazione con la Sunglass, abbiamo creato le due bolle in vetro con attacchi innovativi, disegnati da Massimiliano Fuksas ed ingegnerizzati da papà. Sono nostri anche gli attacchi per la doppia pelle in vetro, che circonda il perimetro del Museo dell’Agricoltura a Belgrado. In collaborazione con la Eco Edilizia Coordinata di Abano Terme, nostri partner abituali, abbiamo in dirittura d’arrivo a Milano una megagalattica “sorpresa”, che farà parlare il mondo. Sempre per conto della Eco e su progetto finanziato dall’Unesco abbiamo realizzato i componenti delle strutture reticolari,che coprono in Etiopia le superfici di 5 millenarie chiese copte. Fabbrichiamo anche componenti in titanio per generatori di idrogeno, impiegati nelle sale operatorie; sempre alla ricerca di materiali innovativi».
Quale valore aggiunto pensa d’aver portato all’impresa di famiglia?
«Al mio arrivo la contabilità industriale aveva tanti numeri non utilizzati, ora l’azienda sta assumendo una dimensione più strutturata. Impieghiamo una quarantina di dipendenti per 7 milioni di euro circa di fatturato e dobbiamo decidere quanto crescere rispetto alla nostra identità, che è comunque di élite. Abbiamo la capacità tecnica per penetrare nuovi mercati, ma è una mossa da ponderare. Di certo dobbiamo continuare ad innovare, sia a livello tecnologico che industriale. Fornendo clienti in settori diversificati, non rischiamo per fortuna grosse crisi: la produzione per l’architettura ci dà visibilità, ma è ciclica; altri clienti, forse meno conosciuti, sono però fidelizzati».
Mai avvertito il problema del rapporto generazionale con i suoi?
«Come no. All’inizio con mio padre è stato faticoso, un giorno lui me l’ha piantata giù dura: “tu ed io siamo come due galli in un pollaio ed abbiamo lo stesso carattere: ascoltiamo tutti ma vogliamo decidere da soli”. Era una sfida ed in quel momento, confesso, ho avuto una reazione dura. La tensione si tagliava col coltello ma è stato un momento chiarificatore: da allora abbiamo smesso di contrapporci, lui il vecchio e io il nuovo; anche perché non è vero, i miei sono giovani e mio padre è un vulcano di invenzioni. Ci siamo comunicati un senso di rispetto reciproco, che ci ha portato a collaborare, ciascuno con le proprie esperienze».
Com’è Giorgia nel privato, in amore a che punto siamo?
«Diciamo che ho un amore freschissimo e tutte le intenzioni di portarlo avanti senza più sentirmi dare della hostess. Fra poco lo ufficializzeremo con gli amici. Sono una brava cuoca, all’Università il miglior relax prima di un esame era preparare una torta. Adoro viaggi e sport: pratico vela d’altura, faccio canoa, scio, corro, ho iniziato col tennis. Quando posso suono il pianoforte, che ho studiato dai 9 ai 21 anni esercitandomi due ore al giorno, anche la mattina prima di andare a scuola: non che papà, che avrebbe preferito dormire, fosse felicissimo. Sono una shopping-addict, specie di scarpe-cult; quando vado a Milano ne porto a casa collezioni. Dimenticavo: non mangio carne da 8 anni».
Cosa rimane precluso alla donna d’oggi?
«Nulla, ma io ho una prelazione assoluta: la famiglia»
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