In bici tra neve e lastre di ghiacciole ruote scivolano come pattini

Dall’Arcella alla Guizza, le piste ciclabili sono a rischio. Nostaglia dell’Olanda: ma come fanno a ripulire le strade in fretta?
Mezzanotte del 31 dicembre. Mentre i fuochi d’artificio illuminano il Prato della Valle, milioni di fiocchi di neve calano sulla città trasformando in fantasmi gli alberi, le statue, gli edifici. In bicicletta disegni strisce nere su un manto immacolato, ma l’impatto è morbido, le ruote non trovano resistenza, si corre controvento in mezzo a un vortice gelato che distribuisce schiaffi e buffetti.


La mattina dopo la città è di cristallo, tutto ghiacciato, piste ciclabili traslucide. Le strade del centro, un po’ alla volta sono state sgomberate dalla neve, ma ora viaggiare su due ruote è impresa ad alto rischio. Il ghiaccio è acqua congelata dal freddo e rappresa in cristalli, ma questa semplicità chimica si concretizza in forme varie e complesse: c’è l’iceberg dei mari iperborei grande come un transatlantico, c’è l’icefield, la lastra, ma qui, su queste nostre strade, foderate di pelli differenti, dal cogolo al porfido, all’asfalto, tutte con un diverso tasso di scivolosità, la forma più insidiosa è la velatura.


E’ una pellicola sottilissima di ghiaccio che si forma nei tratti spazzati dalla neve per cui la strada sembra pulita e sicura, in realtà è una trappola del freddo, facile da trovare quando la temperatura scende a 7 meno-zero come è successo in questi ultimi giorni. Su queste macchie di gelo la gomma della bicicletta scivola come un pattino, se freni è peggio. Nelle strade periferiche, in cui la bonifica con spazzamento e sale è avvenuta più tardi, abbiamo visto Suv in deragliamento, figurarsi con due ruote, il volo per terra è garantito.


Eppure sulle banchise periferiche dalla Guizza all’Arcella, a Padova ovest e anche su un Prato della Valle diventato di colpo il pattinodromo più grande del mondo, sono apparse casalinghe temerarie, lo zoccolo duro delle casalinghe padovane, con la borsa della spesa appesa al manubrio.


Questo coraggio non è stato premiato: molti capitomboli, finocchi, pomodori e strenne della Befana sparsi per terra, quando non sono state dentiere e occhiali. Il giorno dopo le biciclette erano scomparse. Ora la pioggia ha in parte sciolto la neve e c’è stato un intervento massiccio di spalatori ma per il fine settimana sono previste gelate e le strade continuano ad essere pericolose, sconsigliate ai ciclisti. Prendi via Sorio: la pista ciclabile è in gran parte pulita, delimitata ai lati da mucchietti di neve sporca, come tane di talpe delle nevi, la imbocchi con soddisfazione, ma ecco il trabocchetto: c’è un tratto di qualche metro quadro ancora innevato, provi ad attraversarlo, ma la neve fatta di creste, croste e spezzoni, è più compatta di quello che sembra e sotto la neve c’è il ghiaccio.


Ma come fanno in Olanda? Forse lì le biciclette hanno ruote più grosse e magari sono attrezzati con catene o forse c’è un tasso di spazzaneve ogni 100 abitanti molto elevato. Anche da noi qualcuno ha trovato un rimedio.


«Io con la neve uso la Graziella, almeno appoggio i piedi per terra e poi cado da più basso». Anche la mountain bike che ha pneumatici da fuori strada si adatta meglio al fondo scabroso e dissestato che non un attrezzo da corsa che ha superfici di scorrimento snelle come le zampe di una gazzella. Altre insidie per il ciclista e per il pedone sono i chiusini, magari mimetizzati da uno strato di neve, il contatto gomma-metallo è micidiale, come mettere il piede su una saponetta. C’è un proverbio veneziano la cui veridicità abbiamo constatato di persona: Piere bianche, culi neri. Scalini, lastre di marmo lisce come la pelle di una sedicenne con il maquillage di un velo di ghiaccio diventano piste di lancio per improvvisi decolli ciclistici.


Forse è una leggenda ma anche le strisce pedonali bianche sembrano più scivolose che non i blocchi di trachite, anche perché questi ultimi costituiscono la pavimentazione dei portici e sono più riparati dal freddo. Pericolose anche le piste ciclabili lungo il Piovego in via Goito per la discontinuità dello spazzamento. Ieri aveva ripreso a nevicare: minuscole faìve e poi fiocchi sempre più robusti. Bambini, con gli occhi sgranati e i nasi incollati ai vetri a dire”Nevica ancora, che bello”. Per fortuna ha smesso.


Ti puoi immergere nella poesia dell’inverno uscendo appena un po’ dalle strade di grande traffico: prendi via Libia, volta per via Bainsizza, sei in pieno Basso Isonzo, puoi vedere la campagna spoglia sepolta in un letto di neve, puoi vedere l’acqua del fosso ghiacciata che diventa azzurra o iridescente, e piste ciclabili arginali come sentieri verso un villaggio di igloo. Ciò fa emergere dalla memoria gli inverni feroci di una volta: ragnatele come gioielli, foglie fossilizzate dalla galaverna, il vento che soffiava sottozero. Questo salto nel passato costa però notevoli disagi. Tu ci stai a barattare un soffio di poesia con un capitombolo che, se ti va bene, ti lascia lo strascico di un mal di schiena che dura un paio di settimane? Nel 1919 a Padova fece così freddo che alcuni alberi scoppiarono perché la linfa si era ghiacciata. Questo, ed era molto poetico anche se la gente moriva di freddo e i pompieri non riuscivano a spegnere gli incendi perché l’acqua era condensata in ciottoli di ghiaccio, ce l’hanno raccontato, ma anche a nostra memoria ci rammentiamo di inverni da geloni, di dita e orecchie intirizzite.


Eravamo più giovani? Certo. Ma ora è tutta la città ad essere diventata vecchia, ad avere meno equilibrio, meno riflessi, meno muscoli. E’ quasi paradossale che a sopportare meglio quest’inverno con la bocca piena di denti aguzzi siano gli stranieri, magari neri, magari che vengono da paesi baciati perennemente dal sole. E’ così perché loro sono giovani e noi sempre più vecchi.


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