La catena delle stragi nel Veneto straziato da odio e rappresaglie

I massacri dei nazisti in fuga: dalla “marcia della morte” nell’Alta Padovana alla furia delle SS a Pedescala e Forni
Di Filippo Tosatto

di Filippo Tosatto

Una terra di nessuno attraversata dalle colonne tedesche sconfitte e rabbiose, tra imboscate partigiane, rappresaglie delle SS, colpi di coda delle Brigate nere, terrore senza fine della popolazione. Si consuma nel Veneto l’ultimo capitolo del conflitto ed è nel segno della ferocia. Nell’aprile 1945, mentre gli Alleati scatenano l’offensiva finale alla Linea Gotica, sfondandola in più punti, l’armata di Hitler inizia la ritirata, supera il Po e si riversa nella pianura, diretta ai valichi alpini. Operazioni di ripiegamento, nel lessico del feldmaresciallo Kesselring. Rotta disperata e caotica, nel racconto dei testimoni, dove a ciò che rimane dei reparti regolari si affiancano i “battaglioni delle morte”, gli sbandati, i mercenari di molti Paesi, i criminali comuni anche. Assuefatti alla violenza più brutale, pronti a tutto.

La gente veneta ha già sperimentato la furia nazifascista nell’estate-autunno 1944, stagioni scandite da fucilazioni, eccidi, devastazioni e saccheggi. Una repressione pianificata, ordinata da Berlino per spezzare con i plotoni d’esecuzione ogni legame tra civili e Resistenza così da garantire la sicurezza delle arterie dirette al Nord Europa. Che raggiunge il culmine nel colossale rastrellamento del Grappa, roccaforte delle brigate Garibaldi e Matteotti. Tra 21 e 27 settembre la caccia all’uomo (la più vasta compiuta in Europa contro combattenti irregolari) si traduce in una serie devastante di scontri a fuoco: oltre 500 caduti, 400 antifascisti deportati, 31 comandanti partigiani impiccati nei viali di Bassano con il cartello infamante («Io sono un bandito») a corredo delle esecuzioni sommarie.

Ma ora lo scenario muta radicalmente, persino rispetto alla raggelante freddezza esibita dai combattenti con la svastica nei massacri lungo l’Appennino. Le stragi che seguono, per intensità e barbarie, suscitano ancora sconcerto e interrogativi tra gli storici. Volontà punitiva verso i «traditori badogliani» e “mentalità tesa allo sterminio”, reazione furiosa al pericolo imminente e scomparsa di ogni autorità mediatrice: fattori reali, eppure non risolutivi se isolati dal clima estremo di quei giorni dove – va ricordato – a sfidare i veterani del Reich non saranno le agguerrite bande di montagna ma formazioni partigiane di pianura, composte in larga parte da uomini inesperti, affluiti all’ultimo momento e non immuni - sentenzierà lo stesso Cln dell’Alta Italia - da «sconsiderati errori di valutazione».

La catena dell’orrore si apre il 25 aprile a Villadose, nel Polesine: venti ostaggi, rastrellati dopo la morte di un soldato tedesco (ma non è mai stata provata la correlazione tra gli eventi) vengono condotti nei pressi del cimitero del paese e fucilati a piccoli gruppi. Poche ore dopo, tra il 25 e il 26, a Santa Giustina in Colle (Padova) l’assalto a un presidio tedesco provoca alcune vittime e scatena la vendetta indiscriminata: nazisti e camicie nere catturano 24 persone, li conducono nella piazza e iniziano le esecuzioni, neppure il parroco e il cappellano sfuggono alla morte. A breve distanza, è il 29, la dinamica sembra ripetersi ma assume presto contorni inauditi. In una marcia spettrale tra Sant’Anna Morosina e Castello di Godego, i fanti della divisione Falck - in risposta a un attacco nemico - prelevano dalle abitazioni tutti gli uomini, giovani e vecchi, e li usano come scudi nel ripiegamento verso nord, decimandoli sommariamente, a gruppetti, lungo il percorso. Una strage che colpisce anche le comunità di San Giorgio in Bosco, Abbazia Pisani, Villa del Conte, San Martino di Lupari; e che prosegue per l’intera giornata con modalità allucinanti: l’atto finale in località Cazzadora a Castello di Godego, dove cadranno gli ultimi 60 ostaggi. Alla fine i martiri della domenica di sangue saranno 133. «Posso affermare che tutte le vittime, quando le vidi io, avevano ancora le . braccia sollevate in alto, parecchi con le dita della mano chiuse e con serrate nel palmo terra ed erba, evidente segno di spasimo atroce degli ultimi istanti di vita», le parole del medico condotto Giannino Da Sandre, tra i primi ad accorrere sul luogo.

A volte il furore si scatena anche in assenza di gesti ostili: è il 27 quando un gruppo di sbandati germanici (ma ci sono anche austriaci e russi bianchi) entra a Santa Margherita d’Adige, nella Bassa padovana. Stremati, disperati, crudeli: ottengono cibo e alloggio ma quando iniziano il saccheggio e le violenze i contadini tentano di difendere la loro unica ricchezza, il bestiame: la razzia avviene ugualmente, accompagnata dall’assassinio di 13 persone. Non sarà un fatto isolato: nei paesi limitrofi le famiglie di braccianti e di mezzadri che si oppongono ai predatori pagheranno un tributo di sangue altissimo: 33 vittime, in quattro distinte stragi avvenute a Bresega di Ponso, Valle San Giorgio, Ponso e Prà d’Este.

Il giorno seguente, a pochi chilometri di distanza, la resistenza uccide tre soldati della Wermacht: i loro commilitoni fanno irruzione nella case di San Benedetto delle Selve, trucidando 11 civili, inclusa una bambina di sei anni. Non è finita. A Villatora di Saonara, dopo un violento scontro fuoco con reparti partigiani provenienti da Camin, i nazisti mettono a ferro e a fuoco il centro abitato: 11 abitanti muoiono durante la spedizione punitiva, altri 34, catturati, vengono abbattuti sommariamente e gettati in un fossato.

A Lozzo Atestino è il coraggio di un sacerdote – don Tarcisio Mazzarotto, che si offre in ostaggio – a evitare in extremis dalla fucilazione 70 prigionieri. Ma nel Vicentino non c’è salvezza per i 17 rastrellati a Tresché di Conca, per i 18 cittadini abbattuti a raffiche di mitra a Monte Crocetta, per i 12 inermi (compreso un neonato di nove mesi) massacrati a Campedello. È un rosario angosciante, che si sgrana anche a Creazzo, Lonigo, Dueville, sulle montagne bellunesi – i dieci martiri di Fonzaso, e a Caerano San Marco, nel Trevigiano, dove il 30 aprile gli occupanti, senza apparenti motivi, falciarono sei vite umane.

Fino all’epilogo, tremendo e surreale, sui monti vicentini tra Pedescala e Forni, fra il 30 aprile e il 2 maggio, a guerra pressoché conclusa. «Una tragedia controversa», commenta lo storico Marco Borghi, «che ha alimentato le polemiche più aspre, determinando una vera e propria spaccatura della memoria nelle comunità colpite». A una sanguinosa incursione partigiana – ma alcune fonti parlano di atti isolati e spontanei degli abitanti – le colonne tedesche, spalleggiate da SS ucraine, risposero con i carri armati: Pedescala fu accerchiata e bombardata, poi la carneficina casa per casa – con lanciafiamme, accette, mazze ferrate, calcio dei fucili – lasciò sul suolo le salme semicarbonizzate di 64 tra uomini e donne. Non meno orribile il destino di Forni, dopo uno scontro a fuoco con la Resistenza, gli invasori prelevarono dal paesino una trentina di ostaggi, li rinchiusero in un edificio e li massacrarono con bombe a mano e raffiche di mitra: 19 le vittime, i cui corpi furono cosparsi di benzina e dati alle fiamme.

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