La divisiva esibizione a scuola dei simboli religiosi

È di qualche giorno fa la sentenza con la quale la Corte di Cassazione pone fine alla questione (annosa) dell’esposizione del Crocifisso cristiano nelle aule scolastiche, ritenuta improponibile da docenti aderenti all’Uaar (Unione degli atei e agnostici razionalisti) in nome di una radicale laicità, ma accettata invece dalla coscienza comune del Paese. Il ricorso presentato contro l’esposizione del Crocifisso, ritenuta discriminatoria nei confronti di chi è non credente, non è stato accolto, e la sentenza si è, salomonicamente, espressa a favore di decisioni demandate alle singole scuole, in nome di un’autonomia che deve tenere conto delle diverse sensibilità presenti.

Di obblighi ad esporre il Crocifisso è impossibile parlare, non essendo il Cristianesimo religione di Stato nella nostra Repubblica, nella quale invece ora può essere accolta la richiesta di esposizione anche di simboli religiosi diversi da quelli cristiani, a seconda, appunto, delle diverse sensibilità degli alunni e delle famiglie.

Insomma, ci avviamo verso la stagione di un “pluralismo iconico”, pluralismo cioè delle immagini e dei simboli sacri, in cui è previsto che possano convivere nella medesima aula simboli delle diverse religioni nelle quali si riconoscono gli alunni che la frequentano. Non saranno, forse, tanto contenti di questa soluzione, ispirata –per dir così– da un irenico politeismo delle fedi, gli atei dell’Uaar, mentre autorevoli teologi cattolici si sono già dichiarati favorevoli.

Non c’è bisogno, tuttavia, di essere adepti dell’Uaar per porsi una domanda, a monte della questione: che bisogno c’è di esporre nelle aule scolastiche i simboli delle religioni degli alunni e delle rispettive famiglie? In altri termini: perché è necessario esibire, o permettere che siano esibiti, in luoghi pubblici simboli religiosi, che sono segni di una fede che è, a tutti gli effetti, personale e privata? Anzi, che è, o dovrebbe essere, la cosa più personale e privata, intima e da custodirsi nella profondità del proprio cuore, come ciò che dà, per il credente, senso alla vita ed alla stessa morte? Perché si vuole fare diventare “pubblica”, nel senso più forte del termine, la propria opzione di fede religiosa chiedendo che siano ostentati i simboli di essa, in luoghi frequentati anche da chi non vi si riconosce?

Sottesa c’è una concezione della fede religiosa che, evidentemente, pretende una sorta di riconoscimento pubblico di essa medesima in quanto tale. Cosa legittima, si dirà, ma forse non necessaria e non opportuna quanto più l’appartenenza religiosa può, nel contesto sociale in cui viviamo, essere segno che marca una diversità rispetto alla comune appartenenza ad una società che si vuole (o vorrebbe) coesa in nome di valori inclusivi, che non contrappongano coloro che condividono una medesima cittadinanza in nome di fedi religiose le cui pretese di assolutezza possono creare tensioni divisive. —

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