La memoria di Trinca «Ho perso più di un milione Anch’io vittima come i soci»

Ecco come l’ex presidente di Veneto Banca ha convinto la Procura di Treviso che l’unico a prendere decisioni era il direttore generale Consoli

treviso. Anche Flavio Trinca «si è fatto ingannare dall’apparente solidità del prodotto finanziario acquistato alla stregua di un qualunque azionista» ed è «la riprova del fatto che il consiglio di amministrazione era - di fatto - destituito di ogni potere e concretava la propria azione nell’inconsapevole avvallo della politica condotta dall’amministratore delegato». Si tratta di due passaggi chiave della memoria difensiva depositata lo scorso 26 giugno dall’ex presidente di Veneto Banca per il quale la Procura di Treviso ha ora chiesto l’archiviazione per le accuse di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza bancaria. Accompagnato dall’avvocato Fabio Pinelli, lo storico presidente del cda dell’istituto di Montebelluna (carica ricoperta dal 1997 al 2013) si era presentato un mese fa in Procura a Treviso per farsi interrogare e in quella occasione ha convinto il sostituto procuratore Massimo De Bortoli della sua estraneità rispetto ai fatti contestati.

La circostanza che anche lo stesso Trinca abbia perso una grossa somma di denaro con il falò delle azioni di Veneto Banca ha convinto la Procura della sostanziale ininfluenza dell’ex presidente nella gestione della banca. «Il dottor Trinca», si legge nella memoria difensiva, «ha perso alla stregua di tutti gli azionisti che lamentano un danno oltre 1.500.000 euro (controvalore al 31 dicembre 2014). Trinca potrebbe astrattamente costituirsi parte civile con riferimento ai reati contestati nel presente procedimento, qualora venisse esercitata l’azione penale. «Anche il presidente del cda aveva investito il proprio denaro acquistando nel tempo circa 40.000 azioni. A dispetto della asserita posizione di “privilegio”, il dottor Trinca non ha né dismesso il proprio patrimonio azionario, né è rientrato dell’investimento effettuato. In altri termini, colui che sarebbe l’autore, quantomeno mediato, delle politiche gestorie di innalzamento dei prezzi delle azioni, di “esagerazione del Patrimonio di Vigilanza” e, conseguentemente, di falsa esplicitazione delle condizioni di solidità patrimoniale dell’Istituto, non solo non ne avrebbe guadagnato, ma ne avrebbe perso una somma considerevole. Di fatto facendosi ingannare dall’apparente solidità del prodotto finanziario acquistato, alla stregua di un qualunque azionista. Senza poi ottenere il riacquisto delle azioni da parte della Banca». Dunque, è la conclusione, si tratta di un caso «nel quale il presidente del cda inganna sé stesso circa le condizioni dell’istituto. È evidente la totale assenza di rappresentazione da parte del medesimo della gestione complessiva e degli effetti, diretti o indiretti, della stessa, sulla determinazione del Patrimonio di Vigilanza. Lo si comprende dalla inconsapevolezza, perché non può trattarsi di altro che di questo, rispetto anche al proprio “interesse personale”.

Successivamente Trinca richiama l'attenzione su quelli che sono gli effettivi poteri della figura del presidente del cda. «La carica ricoperta fino all’aprile 2014», si legge nella memoria difensiva, «è una carica dalla quale non derivavano né concreti poteri, né deleghe operative: quindi nessuna responsabilità da posizione. Infatti, al netto della qualifica di presidente, nulla differenziava costui dai consiglieri “semplici”, con i quali condivideva il mero potere deliberativo collegiale». Un’analisi che arriva anche ad indicare in Vincenzo Consoli l’unico responsabile delle scelte anche in relazione alle comunicazioni.

E per dimostrare che era Consoli in sostanza a decidere tutto, Trinca aggiunge poi che «anche dopo il 26 aprile 2014, per come è configurata l’imputazione complessiva, il potere decisionale era accentrato nelle mani del medesimo soggetto, il quale ricopriva l’incarico di direttore generale. Costui dominava i processi deliberativi dell’istituto pur non partecipando ai consigli d’amministrazione. Sintomo del fatto che le decisioni del cda erano predeterminate al di fuori del contesto consiliare, per poi ivi approdare per un mero avallo». Si tratta di una verità, quella di Trinca, che ha convinto la Procura a chiedere per lui l’archiviazione. Un vero e proprio colpo di scena al quale manca solo la ratifica da parte del tribunale. —

Giorgio Barbieri

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