L’Italia divisa dalla didattica a distanza Chi non ha gli strumenti è tagliato fuori

Disponibilità di computer, di una linea adeguata, dell’assistenza di adulti in grado di supplire a nuove e inedite difficoltà I ragazzi che arrivano dalle classi sociali più elevate hanno una marcia in più per emergere: l’equità della scuola non c’è più 
TOME' - AGENZIA BIANCHI - PADOVA - LICEO FERMI PER NUOVE REGOLE SCUOLA
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L’analisi



Con il 7 gennaio, se tutto va bene, tutti gli studenti ritorneranno nelle aule. Speriamo che le cose vadano secondo i piani e che la curva dei contagi, da cui tante sorti dipendono, tra Natale e la Befana non faccia brutti scherzi. Dico questo non solo nell’auspicio di un ritorno, progressivo e prudente, alla normalità, ma perché, da insegnante, non posso fare finta che la didattica a distanza funzioni bene.

A dirla chiara e tonda, credo che la didattica a distanza sia un disastro. Certo, non un disastro sanitario, ma educativo, le cui conseguenze si faranno sentire a lungo. Il problema, grave e cronico nel nostro paese, è l’incapacità della scuola di essere davvero democratica. Non siamo in grado di garantire un principio fondamentale, l’equità tra studenti. Lasciamo stare l’equità tra studenti di regioni diverse: lì da tempo non sembra esserci scampo: l’Italia della scuola viaggia a due velocità, e abbiamo fin troppi elementi (esiti Invalsi e Ocse Pisa, per citare i più rilevanti) che confermano uno scenario scoraggiante di regioni (tra cui il Veneto) con scuole in linea o al di sopra dei livelli dei paesi scandinavi, e altre regioni che evidenziano criticità nelle competenze base di lettura e di calcolo.

Ma anche all’interno dello stesso istituto, della stessa classe, scopriamo che la scuola italiana non riesce ad essere democratica. E la didattica a distanza radicalizza questa ingiustizia. In sintesi (mi si perdoni la semplificazione): lo studente che ha alle spalle una famiglia con un buon reddito e con titoli di studio elevati ha altissime possibilità di successo formativo. Al contrario, lo studente che proviene da una famiglia a basso reddito e con titoli di studio basilari, è molto ma molto più esposto al rischio dell’insuccesso, dalla bocciatura all’abbandono.

Su questo dato, costantemente confermato dalle statistiche, dobbiamo interrogarci: o i figli dei genitori con un buon reddito e con la laurea sono più “bravi”, e i figli di genitori a basso reddito e con la licenza media sono più “somari”, per usare delle terminologie alla De Amicis, o c’è qualcosa che non funziona nella scuola. Sì perché a scuola l’esposizione degli studenti agli stimoli culturali dovrebbe essere identica. E le differenze nel rendimento tra ragazzi dovrebbero in linea teorica derivare dalle loro motivazioni, dai carismi, dalle “intelligenze multiple”, dalla simpatia o antipatia per una materia sull’altra. Non dal reddito e dal livello socioculturale delle loro famiglie. Ma questo non avviene.

C’è chi dice che di fatto la scuola in Italia stia passando da “ente formatore”, preposto all’educazione delle nuove generazioni, a “ente certificatore”, il cui compito diventa sostanzialmente quello di “misurare” qualcosa che non avviene, o non avviene del tutto, in aula. Ora se questo quadro è già fin troppo vero e drammatico nella didattica tradizionale, nella didattica a distanza diventa apocalittico.

Questo sistema legittima un gap culturale e formativo enorme tra quei ragazzi che saranno messi dalle proprie famiglie in condizione di avere successo, con un pc individuale, con una buona connessione internet, con la vicinanza di una figura adulta in grado di aiutarli con gli esercizi; e quei ragazzi che non potranno avere un tablet (e quindi le scuole dovranno attivarsi per fornirne uno in comodato gratuito) che non potranno avere una buona connessione (e quindi seguiranno male le lezioni) e, soprattutto, che a casa saranno sostanzialmente soli ad affrontare una sfida pesante anche per un adulto (consultare il registro, tenere d’occhio le scadenze, organizzarsi da soli il tempo-studio e il tempo-gioco…), perché magari sono loro i più italofoni nel nucleo familiare, o perché i genitori sono al lavoro e non hanno una rete familiare o amicale di sostegno.

Già al termine dello scorso anno nelle scuole medie e superiori si sono evidenziati dei problemi gravi, ma, un po’ perché si era trattato di quattro mesi, un po’ perché si stava uscendo dall’emergenza, si è andati avanti, rimandando a quest’anno il recupero delle “lacune pregresse”.

Se la didattica a distanza, per tamponare le intemperanze natalizie degli italiani e la successiva ripresa dei contagi, dovesse continuare anche a gennaio, le conseguenze per gli studenti e “tra” gli studenti saranno deleterie. Per carità, non si tratterebbe di scenari nuovi: anche nel 1919 o nel 1946 gli studenti di mezza Europa sostennero degli esami “facilitati”, visto il frangente, ma lì si usciva da due conflitti mondiali, e lì, soprattutto, la scuola era apertamente meno democratica di oggi: il più delle volte, studiava chi aveva una famiglia in grado di sostenere il proprio rampollo. Per tutti gli altri, zappa, pala e picco.

Al di là di ciò, mi preoccupa registrare l’onda di polemiche attorno alle vacanze sulla neve e allo spumante da stappare coi parenti. Specie se rapportata al sostanziale silenzio attorno alla didattica a distanza. Insomma: pare che gli italiani siano pronti a salire sulle barricate per difendere il cenone e gli spostamenti durante le festività, e si preoccupino invece pochino del rischio che a gennaio i propri figli debbano riprendere a seguire le lezioni da un pc. Questo segnale è preoccupante perché ancora una volta evidenzia un’Italia spaccata in due, ma non tra nord e sud, o tra destra e sinistra, bensì tra giovani e anziani.

Il nostro paese è tra i più vecchi al mondo. Questo è anche un bene, è segno di attenzione alla terza età, di efficienza del sistema sanitario e del welfare. Ma è anche segno di una maggioranza elettorale “over 60” che difficilmente qualche forza politica attenta al “breve termine” vorrà scontentare. E così far del male ai ragazzi (perché di fatto è questo che faremmo loro, con un altro anno di didattica a distanza) è plausibile, non solo perché chi oggi ha 16 anni ancora non vota, ma soprattutto perché, purtroppo per tutti noi, quando arriveranno a votare, questi giovani saranno comunque minoranza.

E il futuro non si mostra roseo: nel 2019 i nuovi nati in Italia sono stati 420 mila, il dato più basso mai registrato in 150 anni di unità del paese. Stando all’ISTAT il 2020 si chiuderà con 408 mila nuovi nati, e il 2021, raccogliendo l’eredità pesante della crisi pandemica, potrebbe segnare la discesa record a 393 mila nuovi nati.

Chi spasima per farsi le vacanze di Natale non deve preoccuparsi: nei prossimi anni le piste da sci, in Italia, saranno sempre più libere. —



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