Mario Carraro compie 90 anni: «Non è questo il Paese che sognavo»

Intervista all'imprenditore padovano che ha segnato un'epoca: Mani Pulite ha spazzato i corrotti ma pure aperto le porte a una classe politica che non è stata all’altezza
MARIAN-AGENZIA BIANCHI-PADOVA - INTERVISTA A MARIO CARRARO
MARIAN-AGENZIA BIANCHI-PADOVA - INTERVISTA A MARIO CARRARO

PADOVA. «Non ho paura dei 90 anni, e non ho rimpianti anche se un sentimento di tristezza mi prende per un Paese che non è più quello che sognavo».

Mario Carraro, sperava in un’Italia guarita e competitiva?

«Ci contavo, anzi. Per come l’Italia era partita nei primi decenni del dopoguerra. Ora, per il tempo che mi resta, è difficile sperare di vederla tornare presto tra i paesi più avanzati. Sarà compito dei più giovani riuscire a trovare la forza e l’intelligenza per ripartire».

Dove si è persa l’Italia?

«Negli anni ’80 non sono stati messi freni al debito e tutto finì con Mani Pulite, inchieste che, partite giuste, finirono per distruggere una classe politica, buttando via in pratica il bambino con l’acqua sporca. Con i corrotti sono spariti anche i buoni e la classe politica sopravvenuta non si è dimostrata all’altezza».

E prima che Italia ha visto?

«Ho vissuto momenti importanti nella storia del Paese. Sono stato un balilla poco considerato perché venivo da una famiglia antifascista. Da ragazzino ricordo la raccolta del rottame, l’offerta delle fedi d’oro, l’esenzione dalle tasse per le famiglie con sette figli, che c’erano eccome, ma quasi sempre senza reddito. Poi la guerra e il ritorno alla libertà attraverso la Resistenza che ho seguito con passione. Il dopoguerra ha visto il Paese riprendersi con lena e coraggio e portarsi in due decenni da una condizione agricola al settimo posto tra i paesi più industrializzati del mondo».

Mario Carraro, 90 anni: quando si è vecchi si parla di ricordi


Ed è qui che è iniziato il declino?

«Nell’ambizione mal governata della crescita, in un clima diffuso di corruzione, è esploso il debito pubblico. Non ne siamo più usciti, con grave pregiudizio alla ripresa dall’ultima crisi. Non abbiamo più raggiunto il Pil del 2007 e, peggio, il gap con gli altri paesi industriali si è allargato».

Colpa solo della politica?

«No, certo. È mancata una politica industriale avveduta, colpevole la politica tout court, ma non senza responsabilità le stesse organizzazioni industriali. La recente lettura di Antonov 84 sulla tragedia aerea di Verona mi ha fatto pensare, per esempio, all’inconsistenza in generale dei progetti dei nostri imprenditori a Timisoara, in Romania, mentre la Germania è riuscita a fare di quel paese un asset importante per la sua crescita».

E anche qui viene chiamato in causa il sistema paese, ma gli industriali?

«Ci fu anche un colpevole ritardo delle tecnologie avanzate, qualità totale e lean production. Da presidente degli industriali veneti, qualche collega mi rimproverò di dare troppa importanza a internet, ad esempio. Già allora questi ritardi avevano inciso sui nostri processi di sviluppo. Ora ci aspettano il 4.0 e i robot “intelligenti”. Prepariamoci».

Una partita persa in partenza o giocata male?

«Il nostro sistema produttivo è buono, spesso molto buono, ma in parte poco lanciato nell’innovazione per essere più competitivo. E per l’internazionalizzazione sta mancando il treno della grande industria che sta uscendo purtroppo dal nostro panorama».

Eppure la politica ha sempre catturato il suo interesse...

«Non l’ho mai praticata direttamente, ho rinunciato a un’offerta ministeriale con Prodi, ma l’ho sempre seguita con molto interesse, fin da ragazzo quando, nel dopoguerra, andavo ogni mattina in bicicletta da Campodarsego all’Arcella per comprare i giornali di diverse tendenze. Non avevo ancora 16 anni».

Il Movimento del Nordest fa parte di questo interesse, che bilancio ne traccia?

«Il Movimento è nato dall’interesse per una trasformazione federalista dello Stato, pensando protagonista il Veneto. Io, con Massimo Cacciari, lo vedevo come elemento fondamentale nell’attribuire autonoma responsabilità al territorio, realizzando processi di modernizzazione nella sua reale potenzialità. Questo senza compromettere l’unità del Paese, come ne è esempio la Germania nella struttura dei suoi Länder. Devo ammettere che facevamo una strana coppia: Massimo a volare alto, io a guardare lontano».

Federalismo che è tornato a essere una battaglia che, nonostante il referendum regionale di due anni fa e il governo a trazione leghista, non ha portato alcun risultato ...

«Ho personalmente simpatia e stima per Zaia e, pur nei limiti che presentava, ho votato sì al referendum sull’autonomia del Veneto. Penso che potersi trattenere il residuo fiscale dia spinta a realizzare le grandi competenze presenti nel territorio. Nella situazione attuale sto immaginando che Veneto e Lombardia debbano costituire un argine al percorso sovranista della Lega “nazionale” che io non posso naturalmente condividere».

E la nuova manovra espansiva annunciata dal governo Conte bis?

«Il termine “espansivo” per una manovra di pochi miliardi è di per sé ridicolo. Dobbiamo avere il coraggio di misurare quanto abbiamo perduto nel confronto internazionale negli anni della crisi. Non so come questo si possa fare con governi deboli, incapaci di domandare i giusti sacrifici affinché il Paese torni a trovare un ruolo nel consesso internazionale. Non è un momento felice».

La moneta unica è diventata un problema per l’Italia?

«Al contrario, è ora una necessità. Avremmo dovuto magari entrarci più tardi e più forti, ma è fuori discussione lo sforzo da produrre per sentirci integrati nel continente. Purtroppo eravamo entrati con un programma di riforme economico-istituzionali che non abbiamo poi realizzato, che è tra le colpe della nostra odierna debolezza».

E per Padova che futuro vede?

«Ricordo quando Padova era definita il centro del terziario del Veneto con banche e finanza molto attive. La gestione ordinaria del Comune è da giudicare buona, anche se amerei disegni molto più forti nella trasformazione della città».

Quale il cardine?

«Credo che nella trasformazione un ruolo importante debba essere attribuito all’Università, in cui dobbiamo specchiarci nello sforzo di rinnovamento in atto. Voglio ricordare che l’Italia, pur annoverando le più antiche università del mondo, non ha nessun ateneo tra i primi 100 della classifica come è invece per paesi molto più piccoli di noi in Europa. Con il professor Rosario Rizzuto nella veste di rettore sono stati fatti molti passi avanti. Ora dobbiamo prepararci a celebrare con vero impegno, per il significato che assume, l’ottavo centenario nell’ormai vicino 2022. Nella capacità di tenere alta l’attenzione verso la scuola tutta, si misurerà la nostra volontà di contare in futuro». —

 

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