Neonata morta dopo il parto in casa, Graziottin: «Sicurezza prioritaria, ma gli ospedali si umanizzino»

La professoressa Graziottin: «Premesso che la sicurezza per la mamma e il bambino non è negoziabile, bisognerebbe a livello ospedaliero realizzare pienamente l’umanizzazione del parto»

Valentina Calzavara
La professoressa Alessandra Graziottin
La professoressa Alessandra Graziottin

Partorire in casa è una scelta sicuramente appagante per chi diventa genitore, ma può essere anche molto pericolosa per la salute di mamma e bambino, se accade l’imprevisto.

«Possiamo riflettere senza giudicare, con vicinanza al dolore della famiglia, rispettando le indagini in corso e la situazione delicata che stanno attraversando le ostetriche».

Alessandra Graziottin, professoressa del dipartimento di ostetricia e ginecologia dell’Università di Verona e direttrice del Centro di ginecologia e sessuologia medica del San Raffaele Resnati di Milano, non entra nel merito della tragedia di Borso del Grappa, ma prova ad analizzare le ragioni che portano le donne a scegliere di dare alla luce un figlio in ambiente domestico.

Non senza riflettere, con sana critica, su ciò che il contesto ospedaliero potrebbe fare (di più e meglio) per assecondare le future mamme nel loro desiderio di naturalità del parto, oltre a garantire la sicurezza clinica.

Professoressa, il parto in casa è contemplato per gravidanze a basso rischio, cosa significa e quali i requisiti?

«Per definizione le gravidanze possono essere a basso, medio o alto rischio. Questo ci dà un’indicazione importante: nessuna gravidanza è esente da rischi, che possono essere non prevedibili. Nella mia lunga esperienza ho visto diverse volte che in gravidanze fisiologiche, con donne sane e normopeso, potesse accadere qualcosa di imprevisto. Ad esempio, un distacco della placenta, che deve essere diagnosticato subito e impone il cesareo immediato, per evitare di perdere la donna e il suo bambino.

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Se questo dovesse accadere in casa, l’esito sarebbe fatale. Inoltre, le statistiche relative al parto in casa sono falsamente rassicuranti poiché, quando c’è un’emergenza per una grave sofferenza fetale o un’emorragia materna, scatta il ricovero e quel parto patologico viene conteggiato nella casistica dell’ospedale, non del parto a domicilio. Col risultato che le valutazioni sulla salute dei nati in casa non riflettono pienamente la realtà».

Quali sono le principali differenze tra un parto a casa e uno in ospedale?

«Il punto è questo: anche una gravidanza dove va tutto bene non ci deve mai portare ad abbassare la guardia. In primis, vanno riconosciuti i segnali. In ambiente ospedaliero si fa il monitoraggio cardiotocografico che, minuto per minuto, valuta il benessere fetale, evidenziando subito se c’è qualcosa che non va e che richiede l’intervento medico. Parliamo di un indicatore prezioso che generalmente non viene fatto nel parto in casa. Detto questo, capisco anche la preoccupazione delle donne quando temono la medicalizzazione del parto a discapito di sensibilità, attenzione e umanità».

In che modo si possono coniugare i due aspetti: massima sicurezza ma anche rispetto per la fisiologia del parto?

«Premesso che la sicurezza per la mamma e il bambino non è negoziabile, bisognerebbe a livello ospedaliero realizzare pienamente l’umanizzazione del parto. È fondamentale che i medici si approccino con maggiore rispetto alla musica del corpo della mamma e del suo bambino, rispettandone i tempi. Se il parto è fisiologico, la situazione è monitorata, mamma e bambino stanno bene, viene fornita l’anestesista peridurale, il travaglio può durare anche molte ore.

Questo tempo permette ai tessuti del corpo materno di dilatarsi dolcemente, evitando danni e lacerazioni. La mania di rompere il sacco per fare presto è un errore clamoroso. Dovremmo tornare alla saggezza antica, quando si diceva che i bambini “nati con la camicia” erano molto fortunati, proprio perché non hanno traumi da parto».

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