Radicchio di Chioggia, rincaro choc: il costo dal campo alla tavola è cresciuto del quattromila per cento

CHIOGGIA. Quindici centesimi al mercato, due euro (anche oltre) sugli scaffali della grande distribuzione. Cosa succede al radicchio di Chioggia lungo un tragitto di qualche chilometro che porta a rincari anche del quattromila per cento? Per capirlo occorre seguirne la filiera, dai campi fino alla fase di commercializzazione, partendo dall’amara constatazione che nelle ultime settimane quintali e quintali di radicchio sono stati interrati sui campi perché più conveniente rispetto alla raccolta e al conferimento al mercato.
Succede ogni anno, ma dopo la batosta del Covid con i canali Horeca chiusi e la contrazione drastica delle vendite, per i produttori il mancato guadagno non è più sopportabile. Eppure il radicchio si consuma, compare nelle ricette di moltissimi ristoranti e nelle diete comuni, ma negli ultimi 15 giorni l’asta al mercato di Brondolo ha oscillato tra i 10 e 15 centesimi, per il tardivo Igp, toccando anche la quota minima di 5 centesimi.

«Non possiamo addossare tutta la colpa alla grande distribuzione», spiega l’amministratore unico di Chioggia Ortomercato del Veneto, Giuseppe Boscolo Palo, «esiste un problema di fondo, la scarsa organizzazione dei produttori che diventano l’anello debole, senza potere contrattuale. Ciascuna impresa va per conto proprio, se invece si riunissero in Op (organizzazione produttori) potrebbero imporsi.
Non lo dico io, qualche anno fa l’Unione europea ha sentenziato che il mondo della produzione è la parte debole della filiera. C’è poi un altro enorme problema di fondo: la disparità tra domanda e offerta, primo elemento che determina i prezzi. C’è troppo radicchio rispetto alla domanda. Uno studio del 2012 decreta che una famiglia consuma in media 8 chili di radicchio in un anno e che ha una sopportabilità di spesa di 3 euro al chilo. Radicchio però, purtroppo, se ne produce ovunque, in tutto l’anno e il prezzo scende vorticosamente».
Nel viaggio dal campo al supermercato il radicchio si ferma almeno due volte. Arriva al mercato, viene battuto all’asta e acquistato dai commercianti che poi lo lavorano, lo puliscono, lo confezionano e lo vendono ai grandi marchi o lo portano ai mercati generali (nel caso specifico a Padova) e da lì viene acquistato per ristoranti o grande distribuzione.
C’è poi una seconda possibilità: i contratti diretti sui campi, per evitare lo step del mercato. In quel caso l’ortolano contratta prima della produzione un prezzo fisso di vendita con un “mediatore” e al momento della raccolta, a prescindere dalla resa per ettaro, dai valori di mercato e dalle condizioni meteo, lo vende a quanto pattuito.

«Anche in questo caso l’anello debole è la produzione», spiega Boscolo Palo, «si chiudono dei contratti alla cieca, senza sapere come sarà la produzione. Le imprese agricole dovrebbero anche ben calcolare i costi di produzione perché vedo che c’è ancora confusione. Noi abbiamo fatto un’analisi nel luglio 2020 per avere dei dati certi su cui basarci».
Produrre un chilo di radicchio tardivo costa in media 47 centesimi. Su questo calcolo sono stati considerati i costi di preparazione del terreno (livellatura, aratura, vangatura, diserbo meccanico, escavo fossi, irrigazione); le concimazioni (azoto, fosforo, potassio, nitrato); i costi per i semi, le piantine, i contenitori, gli alveoli, il pillolamento; i trattamenti fitosanitari (acaricidi, insetticidi, fungicidi, anti iodici, anti piralidi, anti batteriosi); i costi di manodopera (trapianto, raccolta, zappatura, trattamenti fitosanitari); i costi indiretti per i campi (affitto, quota consorzio di bonifica, contabilità aziendale, ammortamento attrezzature, energia, trasporto al mercato, assicurazioni).
Una sommatoria che porta a un costo per ettaro tra i 14.000 e i 15.000 euro, a seconda che si utilizzi seme autoprodotto o ibrido.
«Se si parte da qui», spiega Boscolo Palo, «capiamo che per lasciare una forbice di guadagno agli ortolani dovrebbe essere venduto al mercato almeno a 80 centesimi. Le spese per pulizia a confezionamento si aggirano sui 50 centesimi e quindi i commercianti dovrebbero rivenderlo a 1 euro e 50».

«Mi spacco la schiena e poi devo buttare il raccolto Assicurarsi? Costa troppo»
«Ogni anno diventa più dura, mi chiedo che senso abbia spaccarsi la schiena sui campi per poi dover buttare il radicchio perché viene valutato una miseria».
A parlare è Stefano Boscolo Bielo, un papà di 39 anni, che gestisce assieme al fratello, da oltre 20 anni, un’impresa agricola a Ca’ Lino che produce prevalentemente radicchio. Anche lui, come molti colleghi, da giorni non raccoglie più il radicchio perché i prezzi di vendita al mercato non coprono nemmeno le spese di produzione.
Quanto radicchio ha lasciato sul campo?
«Ho un terreno di 40 ettari, 30 coltivati a radicchio e 10 a carote. Ho interrato negli ultimi giorni 5 ettari di radicchio, un vero peccato, ma a queste quotazioni non solo non guadagnerei, ma andrei a rimetterci ancora più soldi perché la raccolta va fatta a mano e un operaio costa dai 14 ai 16 euro all’ora, più i costi di trasporto. Meglio lasciarlo sul campo. Ora per 50 giorni rimarrò fermo, se ne riparla a dicembre».
Come mai secondo lei il radicchio viene valutato così poco?
«È una storia che si trascina purtroppo da sempre. Gli ortolani sono tutti divisi, ognuno va per conto proprio e il risultato è che chi è più grosso detta legge. Dovrebbe esserci una riorganizzazione del sistema, fissare un prezzo minimo di vendita, così come si fa per le vongole e per i fasolari, che copra quantomeno i costi di produzione.
Non si può lavorare per mesi e poi dover gettare il prodotto perché nemmeno si riesce a riprendere quanto speso per produrlo. Sono aumentati tutti i costi, il nylon, il concime, il gasolio, non capisco perché l’unica cosa che non aumenta è il prezzo con cui viene battuto all’asta. Ripetiamo da anni sempre le stesse cose, ma sono parole al vento perché non cambierà mai nulla».
Non ha pensato, dopo anni di scarse gratificazioni, di diversificare il tipo di coltivazioni o di cambiare mestiere?
«Ogni terreno è adatto per certe coltivazioni. I miei campi a Ca’ Lino sono perfetti per il radicchio. Le carote a esempio le coltivo in un’altra zona perché hanno bisogno di sabbia. Cambiare lavoro a 39 anni quando per una vita si è fatto solo questo e in un momento di crisi generale non è facile. Cerco di limitare le spese. Al momento ho sei dipendenti, ogni anno li devo ridurre. Se per 50 giorni sto fermo con la raccolta, non posso permettermi di tenere tutti i dipendenti di una volta.
Volevo acquistare un nuovo magazzino con le celle frigo, ma ho rimandato anche questo investimento. Attendo dicembre per ripartire sperando che la resa per ettaro sia buona. Ho alcuni contratti già chiusi sul campo e molto dipenderà dalla resa. Solo sui grandi numeri si riesce a ricavare del guadagno. Se dovesse grandinare come lo scorso anno quando ho perso metà produzione, sarebbe un disastro».
Le assicurazioni?
«Impossibile farle. Costano mille euro l’anno per ettaro e occorre assicurare tutto il terreno. Per me vorrebbe dire 40 mila euro, che ovviamente non posso spendere».

Marchio di qualità Igp sempre più minacciato da operatori stranieri
Il marchio Igp minacciato dalle imitazioni provenienti da tutto il mondo. Dal novembre 2008 la rosa di Chioggia ha ottenuto la certificazione europea sull’identificazione geografica protetta e dall’anno successivo esiste un Consorzio di tutela con lo scopo di promuovere il radicchio di Chioggia e il suo territorio, ma le adesioni sono ancora basse rispetto alla totalità dei produttori.
Per produrre l’Igp occorre osservare il disciplinare che impone l’uso di seme autoctono, periodi di semina e raccolta, concentrazione per ettaro, pezzature e colore, confini di produzione nei 10 Comuni individuati. Molti produttori preferiscono invece ricorrere al seme ibrido, aumentare la resa e non avere imposizioni di alcun tipo. Tanto più che il radicchio rosso tondo viene ormai coltivato ovunque, dal Cile al Marocco, dalla Polonia alla Tunisia, in tutti i periodi. Il Consorzio da anni partecipa a fiere mondiali e eventi promozionali per far capire la distinzione tra l’Igp e il tondo comune.
A tutela del consumatore finale, anche nell’ottica del contenimento dei costi, di recente la Coldiretti nazionale, attraverso il suo presidente Ettore Prandini, ha proposto al ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli la riduzione dell’Iva sui generi alimentari che si potrebbe attuare se si decidesse di mantenere invariato il gettito fiscale a fronte dell’aumento dei prezzi.
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