Referendum, De Carlo: «Anch’io non ritirerò le schede Jobs Act? È superato»

«Il centrosinistra spaccato sui quesiti dimostra che il lavoro non è tema solo suo. Con questo governo il settore è cresciuto»

Luca De Carlo di Fratelli d’Italia
Luca De Carlo di Fratelli d’Italia

 

Luca De Carlo, andrà a votare al referendum dell’8 e del 9 giugno?

«Seguirò l'esempio del Presidente Meloni: andrò a votare, ma non ritirerò le schede».

Perché preferisce questa soluzione al votare “no” o, eventualmente, al non presentarsi tout court ai seggi?

«Votare a un referendum abrogativo è una scelta, non un obbligo: insieme al mio diritto di voto, mi avvalgo di un altro diritto – sempre sancito dalla Costituzione – che mi consente di astenermi in caso ritenga il quesito pretestuoso o frutto di strumentalizzazione».

In una società attraversata dalla disaffezione al voto, non crede che una politica che, a sua volta, sceglie la strada del “non voto” lanci un messaggio sbagliato?

«Assolutamente no: anche il “non voto” è una chiara scelta politica, e lo sanno gli stessi promotori dei referendum.

Oggi si vuole etichettare la destra come anti democratica, dimenticando le posizioni sull'astensione per i referendum del 2003 degli allora Democratici di Sinistra – “Il referendum è dannoso, la cosa giusta è renderlo inutile non partecipando al voto” – o di Giorgio Napolitano sulle trivellazioni in mare, “non andare a votare è un modo di esprimersi sull'inconsistenza dell'iniziativa referendaria". Sono tanti, anche nella storia recente, gli esempi anche a sinistra di invito al “non voto”».

E qual è il suo “invito”?

«Di guardare i numeri e la forza, politica e non solo, che oggi ha l'Italia: da una parte, c'è una sinistra che porta avanti un referendum pretestuoso, che ha perso contatto anche con i temi del lavoro e che non rappresenta più nemmeno la “classe operaia”; dall'altra, c'è un governo di centrodestra che in pochi anni ha ridotto la disoccupazione, aumentato il numero di contratti a tempo indeterminato, fatto crescere l'occupazione femminile.

L'invito è scegliere tra un governo Meloni che lavora per i lavoratori e una sinistra costretta a rispolverare vecchie battaglie, come quella contro il Jobs Act, perché non sa più dove sbattere la testa. Ricordo che una parte di quelli che una decina d'anni fa ha voluto e votato il Jobs Act oggi protesta contro quello stesso provvedimento».

I primi quattro quesiti attengono al mondo del lavoro: licenziamenti illegittimi, precariato e sicurezza. Perché è contrario alle proposte?

«Perché sono solo slogan utili da sbandierare in piazza senza risolvere i veri problemi dei lavoratori. È impensabile pensare che qualcuno possa cancellare il precariato o assicurare la sicurezza sul lavoro con un referendum abrogativo. Tra l'altro, la cancellazione del Jobs Act porterebbe addirittura svantaggi ai lavoratori coinvolti, che vedrebbero le loro indennità scendere da 36 a 24 mensilità».

Però fu la stessa Meloni, nel 2014, a definire il Jobs Act “carta utile per incartare la pizza”...

«Il Jobs Act è ormai stato superato dalle tante iniziative sul lavoro da parte del Governo Meloni, e l'unico problema in questo caso sarebbe il ritorno alla Legge Fornero. È questo che non va giù alla sinistra: che il centrodestra sia riuscito a ottenere risultati in un campo, quello dei diritti dei lavoratori, che la sinistra ha sempre erroneamente ritenuto “naturalmente proprio” e dal quale negli anni si è sempre più distaccata. I numeri, i risultati ottenuti in tema di lavoro da questo Governo sono sotto gli occhi di tutti».

Il quinto quesito chiede di riportare a 5 anni il periodo che il cittadino straniero, maggiorenne, extracomunitario deve trascorrere come residente in Italia, per chiedere la cittadinanza. Non crede che 5 anni siano un periodo sufficiente?

«Quella italiana è già una delle normative più generose ed elastiche d’Europa, tanto che i dati Eurostat al 2023 ci vedono al secondo posto per numero di cittadinanze concesse. Per FdI la cittadinanza vuol dire condivisione di valori, cultura, identità, di un sistema sociale e leggi; è punto d’arrivo di un percorso consapevole, va desiderata e meritata».

I referendum rappresentano spesso degli spartiacque nell’attualità politica. Temete che questo possa rafforzare la sinistra?

«No, anzi: è un segnale di debolezza di chi si vede sorpassare sui “suoi” temi dal governo Meloni e cerca di recuperare credibilità con consultazioni che puntano sugli slogan. Viste le diverse posizioni dei partiti di sinistra, direi che si tratta di primarie giocate sulle tasche dei cittadini; un braccio di ferro tra sindacati e presunti leader politici che con un referendum inutile e dannoso cercano di mascherare la totale assenza di figure guida.

Inoltre, questo referendum ha portato ciò che non serviva alla nostra Nazione: la consultazione non solo ha confermato le diversità di visione dei partiti di centrosinistra sul tema, ma ha spaccato l'unità sindacale».

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