Silvano Maritan racconta le sue prigioni: 42 anni di carcere in 22 istituti diversi, per l’ex mala del Brenta
L’intervista concessa alla rivista della casa circondariale Santa Mara Maggiore di Venezia dove è recluso: l’aveva “giurata” a Felice Maniero, invece ha ucciso il nuovo compagno della ex ed è tornato dentro

In ordine sparso: Venezia, Trieste, Tolmezzo, Reggio Emilia, Saluzzo, Teramo, Sulmona, Treviso, Padova, San Gimignano, Torino, Roma, Belluno, Trento, Verona, Bologna, Vicenza, Parma, Rovigo, Genova, Milano, Pisa.
E forse qualche altra città che rimane sospesa nella memoria. Ventidue istituti penitenziari, dal 1965 ad oggi. Per Silvano Maritan, ancora recluso a Santa Maria Maggiore al momento in cui andiamo in stampa con questo giornale, si è trattato di un lungo viaggio dietro le sbarre italiane. Ha mai fatto i conti di quanti anni ha trascorso in cella?
«Certo che li ho fatti: ho passato 42 anni della mia vita in carcere».
Inizia così l’intervista che Massimiliano Cortivo ha realizzato con Silvano Maritan, numero due della Mala del Brenta, prima sodale e poi grande nemico del boss Felice Maniero. Il colloquio è pubblicato sulla rivista «Ponti», ossia il giornale della casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, di cui Cortivo è direttore responsabile e dove Maritan scrive a sua volta. la rivista è anche scaricabile da questo sito https://www.ilgranellodisenapevenezia.it/
Sessant’anni dopo, ancora in carcere
Maritan finisce in carcere la prima volta a dicott’anni, nel 1965, per furto: «Fu un colpo al cuore: tutto buio, una grande scritta di epoca mussoliniana allʼingresso, io ero giovanissimo, venivo da San Donà di Piave, dalla campagna, figuriamoci che cosʼera stare in mezzo a tutta gente sconosciuta, ubriachi, violenti: un incubo».
A Cortivo racconta di come era il carcere all’epoca: due birre al giorno, un omicidio in cella dopo una lite, pochissimi stranieri, delinquenza perlopiù autoctona. I reati più frequenti: furti, rapine, sfruttamento della prostituzione.

E gli agenti?
«Sicuramente meno preparati di adesso, meno acculturati. Al massimo avevano fatto le prime classi delle scuole elementari. Ricordo perfettamente il capo di allora qui a Venezia. Si chiamava Zanatta. Ricordo che nelle ronde, nei controlli delle celle, contava le presenze dei detenuti con i fagioli, mano a mano che passava in rassegna se li spostava da una tasca della giacca allʼaltra, e a volte finiva per ingarbugliarsi anche lui... davvero unʼaltra epoca rispetto ad ora».
Ma Venezia non era il carcere peggiore, Maritan se ne accorgerà con il tempo…
«Per aver rubato un camion di liquori di Oderzo andai a Santa Bona, a Treviso. Una prigione ancora più dura. Pensi che per qualcuno cʼerano ancora i letti di contenzione, un posto in cui ti legavano mani e piedi e rimanevi lì, immobilizzato, con un buco sotto per fare i bisogni anche per giorni. Ma per fortuna rimasi poco, poi mi finsi pazzo per andare a Reggio Emilia nellʼospedale psichiatrico criminale. Altro inferno ma con maggiori libertà».

Nel 1986 arriva la legge Gozzini, si introduce il concetto della detenzione ai fini di rieducazione del condannato, arrivano i permessi e le telefonate. Maritan esce di galera nel 2016 dopo venticinque anni di detenzione e uccide il compagno della sua ex, anch’egli appartenente alla Mala del Brenta. L’aveva giurata a «faccia d’angelo», per il tradimento che aveva portato in carcere tutta la sua organizzazione, ma poi era tornato dietro alle sbarre per un colpo di testa: omicidio volontario, la libertà tanto agognato dura un niente, il tempo di un colpo di coltello alla gola.
E oggi, com’è il carcere oggi, chiede Cortivo.
«Molto diverso – risponde Maritan - Tra i detenuti la rivalità è tra maghrebini e albanesi, gli italiani sono quasi scomparsi, essendo molti di loro in prigione per questioni di tossicodipendenza. Dalla fine degli anni Ottanta poi la violenza è notevolmente
calata, allora non cʼera nulla da perdere, adesso se sbagli saltano i colloqui, i permessi... è diverso. Poi cʼè un aspetto che ci terrei in modo particolare a sottolineare».
Cioè?
«Riguarda gli agenti. Ho notato molta più preparazione, un livello culturale molto migliorato e questa è una cosa importantissima. Perché, da sempre, lʼequilibrio di un carcere passa dal loro lavoro. Che con la violenza non deve avere niente a che fare».
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