«A Melbourne per un quattro in ginnastica»

PADOVA. «Un'Olimpiade femminile non sarebbe pratica, interessante, estetica e corretta».
A pensarla così non è stato mica uno qualunque. Il maschilista, si direbbe oggi, è il papà delle Olimpiadi moderne, il francese Pierre De Coubertin che si oppose strenuamente alla partecipazione delle donne ai Giochi olimpici, arrivando a cedere solo perché nel 1922 e nel 1926 furono organizzati a Parigi e a Göteborg i Giochi mondiali femminili che minacciarono di oscurare per importanza i suoi Giochi Olimpici. A Padova, prima di avere una ragazza convocata per un’Olimpiade, è stato necessario aspettare sedici edizioni, fino a Melbourne 1956. La Eva in pantaloncini è oggi una bella signora che vive di presente, ricordi, famiglia e lavoro: Franca Peggin, mamma, nonna e farmacista.
Tutto ha inizio...
«Nel secolo scorso, più precisamente nel 1948, a 14 anni.Frequentavo l'istituto Ippolito Nievo e il mondo era davvero diverso. Gli effetti della guerra ancora vicini e poi non è che fosse del tutto usuale per una ragazza fare sport. Ho cominciato a gareggiare seriamente tre anni dopo, nel 1951. Preferivo i 100 metri perché i 200 li consideravo troppo faticosi, solitamente scoppiavo molto prima del traguardo. Però ottenevo buoni risultati anche nel lungo e nel pentathlon.
La svolta per merito di una delle figure che hanno segnato la storia dello sport padovano, Alberto Pettinella che proprio quest’anno ci ha lasciato.
«Lui è stato l’anima del Cus Padova. A lui si deve il merito di aver voluto aprire una sezione femminile, fino ad allora inesistente. La mia prima volta su una pista di atletica però nasce da un episodio curioso: il professore di ginnastica nel primo trimestre mi rifila un quattro in pagella. Ai campionati studenteschi c'è da allestire una squadra di atletica e visto che mi piaceva correre e saltare mi iscrive alla gara di lungo. Ebbene vinsi. La mia carriera come atleta inizia lì, anche se la mia prima vera gara è stata allo stadio Arcella. Un’altra vittoria e alla fine dell’anno quel 4 diventa 10».
A questo punto compare Pettinella.
«Mi chiama e mi chiede di inaugurare la neonata palestra del Centro Universitario. Finalmente anche a Padova diventa possibile allenarsi anche d’inverno. Erano tempi molto naif: nessun allenamento, nessun allenatore, nessuna preparazione specifica. La mia velocità era frutto di doti naturali, non di sacrifici. Quando ho potuto fare allenamenti mirati i risultati si sono visti. Devo tanto a De Magistris, uomo splendido e allenatore impareggiabile. Devo a lui se ho cambiato modo di correre. Ero portata a mettere i piedi verso l'esterno, a mo' di papera. Lui per mesi mi ha costretto a correre sulle linee delle corsie mettendo i piedi verso l'interno».
Com’era lo sport in quegli inizi degli anni Cinquanta?
«Potrei raccontare tanti aneddoti. Nel 1952 sono a Trieste per i campionati italiani di terza serie. Partecipo ai 100 metri e al lungo. Non avevo tute e le scarpette erano quelle usate per giocare a tennis. Era tutto improvvisato: così non faccio neppure il riscaldamento. Mi strappo. Pettinella mi fa avere delle scarpette chiodate risalenti a prima della seconda guerra mondiale. Erano talmente rovinate che un chiodo mi ferisce a un piede, ma contino a correre, non mi sono certo fermata...».
Una dilettante pura, quando si è accorta che avrebbe potuto avere dei risultanti importanti?
«Ero una ragazzina incapace di stare ferma. Crescevo e anche i risultati miglioravano: 12 netti nei 100 metri e 25" e 4 centesimi nel 200. A quel punto ho capito che qualcosa di importante poteva accadere».
Le Olimpiadi di Melbourne, nel 1956.
«Ho perso un anno di università per prepararmi. La convocazione la conquistai sul campo perché non rientravo tra le papabili, ma alcuni risultati davvero importanti costrinsero i tecnici della nazionale a portarmi in Australia. Mi allenavo sul cemento e nella palestra di via Giordano Bruno. Nel maggio del 1956 partecipo ai campionati italiani arrivando dietro a Giuseppina Leone, un'atleta immensa e imbattibile. Partecipo anche ad alcune gare con la nazionale azzurra a Bucarest e a Budapest, agli Europei, dove mi classifico terza dietro alla solita Leone e a una ragazza cecoslovacca. In quell'occasione realizzo il mio record personale: 12 secondi netti nei cento metri. A Melbourne però succede l’impensabile...».
Cioè?
«Lo spirito all’epoca era davvero olimpico. Eravamo tutti in un solo e grande villaggio. Giravamo senza nessuna restrizione. Solo i russi erano controllati a vista. Tutti gli altri potevano muoversi senza guardie attorno. Gli italiani erano ambitissimi. Una nuotatrice australiana ha vissuto stabilmente da poi perché ci trovava simpaticissimi e i nostri ragazzi andavano a caccia di straniere. A rovinare le mie olimpiadi è stato il massaggiatore azzurro. Per la verità non è stata colpa sua, quanto di una pomata che mi provocò una forte allergia che mi fece gonfiare le gambe. Non volevano farmi neppure scendere in pista, ma mi opposi. Sono stata eliminata nelle batterie, però posso dire di aver gareggiato, di aver partecipato alle Olimpiadi di Melbourne».
Franca, a 22 anni, le si apre una carriera che sarebbe potuta poi proseguire almeno fino alle Olimpiadi di Roma 1960. Perché ha lasciato?
«La mia famiglia m'impose di continuare gli studi. Mi laureo in Farmacia nel 1957. Ma a farmi smettere non è stata l’università. Nel 1958 partecipo agli Europei e vinco il titolo nel pentathlon. Devo scegliere: continuare fino a Roma oppure crearmi una famiglia tutta mia. Ho scelto l’amore».
Roma, lo stadio Olimpico, non mi dica che non ha rimpianti?
«Nessuno. Le Olimpiadi in Italia sarebbe stata un’avventura indimenticabile, ma il matrimonio lo è stato ancora di più. Mi sono sposata nel 1959 con Ernesto Scoffone e sono andata a vivere per un anno a New York. Sono stati mesi straordinari, indimenticabili. La vita mi ha dato tanto, mi ha regalato quattro figli e sei nipoti. Oggi mi sento una donna, una professionista, una mamma e una nonna realizzata. Cosa posso pretendere di più?».
Franca Peggion non ha mai smesso di correre. Negli anni Novanta è tornata a indossare le scarpette chiodate gareggiando nella categoria Master, ottenendo anche stavolta ottimi risultati nei 100 metri, staffetta, alto e lungo. Anche i figli hanno cercato di emularla, ma nessuno ha mai fatto quello che la mamma è riuscita a fare. Restano le foto di uno sbiadito colore che lasciano trasparire emozioni d’altri tempi, quando le ragazze non erano le eroine delle piste di atletica.
Ha collaborato
Cristina Chinello
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