Bigon Spaccanapoli: «Quello scudetto memorabile insieme a Maradona»

Padova. Giocatore di qualità, allenatore di classe sempre vincente: amarcord con una stella del calcio veneto 

Stefano Edel / PADOVA

Il buen retiro di Albertino Bigon è a Luvigliano, sui Colli Euganei, dove si è costruito una bella casa, in mezzo al verde. Alle spalle si è lasciato 35 anni di carriera nel calcio, 20 in campo e 15 in panchina, dopo aver conquistato due scudetti, uno con il Milan (da giocatore), l'altro con il Napoli (da allenatore). Un terzo titolo se lo è guadagnato alla guida del Sion, in Svizzera.

Bigon, com'è la vita del settantenne, nel pieno dell'emergenza causata dal coronavirus?

«E' molto buona perché mi trovo in una gabbia dorata. Tutti oggi siamo... rinchiusi in casa, ma io ho un grande giardino e molto da fare. Così svolgo un po' di attività fisica».

Fra pochi giorni, il 29 aprile, ricorreranno i 30 anni dallo storico tricolore conquistato sotto il Vesuvio. Era il Napoli di Maradona...

«Specifichiamo: ho allenato il Napoli anche di Maradona. Sottolineo sempre l'anche, per rispetto nei confronti degli altri componenti del gruppo di allora: non si vince un campionato da solo, ma tutti insieme, dal magazziniere al presidente. Vorrei sottolineare il contesto in cui giungemmo a centrare quel traguardo storico: battemmo il Milan stellare di Arrigo Sacchi, con i tre olandesi e i vari Maldini, Baresi, Ancelotti e Donadoni. Pure noi avevamo tre stranieri, e che stranieri: Alemao dava tanta quantità e corsa, mentre davanti la qualità ce l'assicuravano Maradona e Careca. Fra l'altro, i sudamericani arrivarono tutti dopo 5 giornate di campionato, eravamo in testa alla classifica con 9 punti. Parliamo di un Napoli composto tutto di italiani, già assai valido. Ma lo scudetto fu davvero tantissimo».

Veniamo al passato di calciatore. Prima del Milan ci fu il Padova, la squadra della sua città. Con cui sfiorò la Coppa Italia...

«A 13 anni avevo già la maglietta biancoscudata addosso, e mi è rimasta nel cuore. Quando mi chiedono quale sia stata la partita più importante da giocatore, rispondo sempre “la prima”, un Padova-Monza in cui avremmo dovuto solo vincere per puntare alla Serie A, e dove non andammo oltre lo 0 a 0, mancando la promozione. Debuttai a 17 anni e mezzo, non uscendo più dagli undici. La Coppa? Facemmo il massimo in finale, lasciando a testa alta l'Olimpico di Roma. Non si poteva competere con quel Milan, perdemmo solo 1-0».

Com'è stato giocare all'Appiani?

«Mi vengono ancora i brividi. A 13 anni ero lì, noi ragazzini facevamo le anteprime che precedevano le partite del grande Padova di Nereo Rocco. Poi vi sono tornato con il Milan per un'amichevole, il capitano del Padova era mio fratello Luciano. Quel giorno Rivera mi cedette la fascia di capitano proprio perché dall'altra parte c'era lui, Luciano. Dentro quell'impianto è racchiusa la storia dei Bigon. E' stato l'arena, il campo di battaglia della mia gioventù e il simbolo calcistico di una città intera».

Padova certo, ma il Milan e Rivera?

«Gianni? Un esempio innanzitutto di vita, poi in campo faceva delle cose che in pochi al mondo hanno ripetuto, forse solo Totti fra gli italiani. Io l'ho “usato” per imparare la fase difensiva del calcio, perché era immarcabile. Aveva una dote straordinaria, riusciva a fare una piccola finta e controfinta per prendere quel mezzo metro sufficiente a consentirgli di impadronirsi della palla. Poi, se gli permettevi di girarsi, ti lasciava sul posto. Le racconto un aneddoto: partitella del giovedì, sotto gli occhi di Rocco. Ad un certo punto Rivera controlla il pallone, si gira, alza la testa e io scatto, perché quello era il copione abituale. Vado a destra, mentre Gianni fa il lancio a sinistra. Il paròn fischia, ferma il gioco e ci chiama. “Ciò muli, cos' se suceso?”. Gli sembrava impossibile che io fossi andato da una parte e Rivera avesse messo il pallone dall'altra. Ci mettemmo a ridere».

Ma in rossonero era più centrocampista o attaccante?

«Sono stato il primo “falso nueve” italiano. Alla Di Stefano, Hidegkuti o Bobby Charlton. In realtà, ero centrocampista e legavo il gioco della squadra».

Parliamo dei figli, Davide e Riccardo, e Ramani, origine indiana, che ha adottato.

«Inizio con Riccardo, che ha 48 anni e vive a Bologna. Fa quello che avrei voluto fare io, una volta smesso di giocare. Dopo i primi due anni di Conegliano, con Mario Biason che mi impose il ruolo di allenatore, firmai un contratto con il Bassano che aveva disputato lo spareggio con il Chievo per andare in C. Arrivato in albergo a Milano scoprii, però, che il box dei vicentini non c'era perché erano stati coinvolti in un illecito sportivo. Così il Chievo fu promosso d'ufficio e lì finì l'avventura di direttore generale. Oggi tutti mi dicono che Riccardo è uguale a me, come carattere e modo di fare. Non gli ho insegnato nulla, si è fatto tutto da solo. L'anno scorso aveva già superato le 500 partite in A come diesse. Mia figlia, che ha 45 anni, sta seguendo le orme di mamma Valeria, casalinga e basta. Davide, che ha 50 anni, abita a Marostica e sta cercando occupazione, dopo essere stato 25 anni alla Gemeaz. Siamo nonni di 7 nipoti, più una acquisita».

Il calcio cambierà dopo il coronavirus?

«Non sarà più il calcio che amiamo, questo è poco ma sicuro. Eppure non riesco ad immaginare gli scenari futuri. Avremo il distanziamento sociale anche negli stadi, un posto sì e tre no? Non so che dire...». —

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