Demetrio Albertini, quello che "Tira bombe da lontano e gioca meglio di Pelè"

Calcio Padova amarcord. L’eleganza è la cifra della carriera del calciatore e del dirigente. L’esordio padovano, la gloria con il Milan, le delusioni azzurre 

PADOVA. C’è un filo conduttore, solido e resistente, che unisce la carriera di Demetrio Albertini calciatore a quella di Demetrio Albertini dirigente: lo stile del personaggio, l’eleganza che lo contraddistingue. A quasi 49 anni – li compirà il prossimo 23 agosto – l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale, oggi presidente del Settore Tecnico della Figc (carica assunta a fine gennaio 2019), ripercorre per noi le tappe di una vita ricca di soddisfazioni e successi. Il curriculum, del resto, parla chiaro: nato a Besana in Brianza, approda nel Milan nel 1985, a 14 anni, percorrendo la classica trafila del settore giovanile, sino ad entrare nel giro della prima squadra nel 1988. Parentesi a Padova, in Serie B, nel 1990/91, poi ritorno al Milan, dove in 11 stagioni conquista numerosi trofei, tra cui 5 scudetti e 3 Champions League. Nel 2002 lascia i rossoneri e va in prestito a Madrid, nelle file dell’Atletico, poi gioca con Lazio e Atalanta e chiude la carriera nel 2005 al Barcellona. Da azzurro è campione europeo Under 21 nel 1992 (battuta la Svezia nella doppia finale) e arriva due volte secondo, ai Mondiali Usa 1994 e all’Europeo Belgio-Paesi Bassi 2000. Sposatosi nel ’96 con l’ex fotomodella Uriana Capone, è padre di due figli, Federico e Costanza.



Partiamo dall’Albertini giovanissimo, al quale, dopo qualche anno trascorso a Milanello, viene offerta la possibilità di... farsi le ossa, scendendo in Serie B al Padova. Come andarono, quella volta, le cose?

«Avevo 16-17 anni quando fui inserito nel gruppo di Sacchi, ma non ero chiaramente pronto per un salto immediato in Serie A. Dopo due stagioni a contatto con quei campioni, un giorno Berlusconi mi parlò: “Demetrio, mi piacerebbe che rimanessi qui invece di... perderti, come tanti altri passati dalle nostre parti e poi smarritisi. Anche se giocassi spezzoni di partite, potresti comunque crescere con noi”. Gli risposi: “Presidente, firmerei subito per disputare una quindicina di gare, ma so già che non le farò mai. La squadra è fortissima, io sono un ragazzo...”. Così mi fu prospettata l’ipotesi di Padova, una piazza che avrebbe potuto valorizzarmi: nelle loro intenzioni, sarebbe stato un passaggio fondamentale per completare il mio percorso di formazione. Quando guardai dov’erano i biancoscudati, non è che feci salti di gioia: dopo 9 giornate penultimi in B con 6 punti, senza alcuna vittoria, e un gol segnato. Dietro di loro c’era solo l’Udinese, che aveva iniziato con una penalizzazione da scontare. Ci pensai su, tuttavia dato che le sfide mi sono sempre piaciute alla fine accettai, ragionando sul fatto che Padova era un club di prestigio, con una storia importante, e poi ero tra i cadetti e avrei potuto giocare titolare. Tranne la classifica, c’erano gli ingredienti per far bene».

L’impatto con la città?

«Raggiunsi Padova e il giovedì sera, lo ricordo bene, venni portato negli studi televisivi del programma che andava in onda ogni settimana, con Gildo Fattori, e dove mi trovai al fianco Giordani e Aggradi, il direttore sportivo. Era novembre, il mercato si era appena concluso, e il Padova, oltre a me, aveva preso Rosa e Rizzolo, che era infortunato. Ad un certo punto si presentarono in trasmissione gli ultras, non contenti di come la società si era mossa. Io, 19enne, ero un po’ spaventato, arrivavano le telefonate dei tifosi, perplessi sul fatto che il Milan mi avesse lasciato andare, insomma il clima non era dei migliori. L’unica cosa che dissi ai ragazzi della curva fu: “Aspettate di vedermi giocare, poi giudicatemi”. Non sapevo come approcciarmi con loro. Andai alla partita, la domenica successiva, contro l’Ascoli, che puntava alla Serie A, con la curva in sciopero. Dopo più o meno un quarto d’ora dall’inizio del match, il settore degli ultras si ripopolò e tutti urlarono compatti il mio nome. Provai un’emozione fortissima, fu innamoramento a prima vista. Pensate un po’, passare dalle 30-50 persone che seguivano la Primavera rossonera ai 10 mila o quasi dell’Appiani. Il Padova non avrà mai più uno stadio così, all’Euganeo ha sicuramente perso molti punti nei campionati successivi».

Entrò talmente nei cuori dei tifosi da spingerli a cantare un coro ad hoc: “La gente non sapeva... C’era un padovano che... tira bombe da lontano, gioca meglio di Pelè... Albertini alè alè, Albertini alè alè”.

«Lo coniarono forse perché stavo facendo qualcosa di bello per la piazza. Avevo trasferito sul campo non solo le giocate da calciatore, ma ciò che ero come persona. E tutto questo sempre con il massimo rispetto. Sono e resterò molto legato a Padova, è stata ed è la culla della mia carriera. Mi ha visto in fasce, sia come giovane calciatore sia perché fu la prima volta che mi assunsi delle responsabilità in una squadra».

Veniamo al seguito. Ritorno al Milan, con la consacrazione del campione.

«In rossonero ho disputato più di 400 partite, fra campionato e Coppe, vincendo molto ma perdendo anche 11 finali, non poche. Avrei potuto ottenere di più, certo, ma al Milan devo tutto, è la mia seconda famiglia, mi ha preso da bambino e mi ha visto crescere come uomo e come calciatore. Da piccolo non tifavo per nessuno, mentre mi piaceva tantissimo come giocatore Marco Tardelli. La prima partita che vidi allo stadio fu un Milan-Catania, avevo 9 anni: un segno del destino. Con Berlusconi, Galliani e Braida il rapporto è stato straordinario, abbiamo fatto un percorso di vita insieme, togliendoci grosse soddisfazioni, il presidente ci parlava di un progetto alquanto utopistico eppure l’ha fatto diventare realtà, ho giocato davvero nella squadra più forte al mondo».

L’allenatore o gli allenatori più importanti?

«Sacchi e Capello. Il primo da calciatore mi ha trasformato in giocatore di calcio. Che differenza c’è? Il calciatore è chi calcia molto bene il pallone, il giocatore è chi sa stare molto bene in campo. Capello mi ha messo titolare, a 20 anni, mi ha infuso la personalità e la maturità giuste».

Le esperienze in Spagna, con Atletico Madrid e Barcellona? «Entrambe mi hanno arricchito tantissimo. Forse ho un legame più stretto con il Barcellona, dove ho iniziato l’era di questo squadrone che ha centrato un filotto di trionfi eccezionale. E la mia carriera non a caso è finita lì, a pochi mesi dai 35 anni».

Il rapporto con la Nazionale? «Con l’Under 21 ho conquistato un oro continentale, ma la delusione più grossa è stata l’Europeo 2000, vissuto da “senatore”, quella sconfitta in finale con la Francia non mi va ancora giù. Ci restai male anche al Mondiale ’94, negli Stati Uniti, sebbene lì fossi il più giovane della comitiva azzurra».

Ed eccoci alla stretta attualità, con la seconda vita da dirigente. Mai pensato di fare l’allenatore?

«No, ci vuole la vocazione per un mestiere così difficile, poi, mi si consenta la battuta, la voglia di avere a che fare con i calciatori non era tanta (e ride, ndr). Nel marzo 2006 giocai la partita d’addio a San Siro, Milan-Barcellona, e due mesi dopo, a Parigi, dov’ero stato invitato per la finale di Champions fra il Barça e l’Arsenal (2-1 per i catalani), mi giunse una telefonata dal presidente del Coni Gianni Petrucci, che mi chiese una mano, con la Federcalcio commissariata. Fui nominato vice-commissario straordinario. Così cominciai la mia seconda avventura. Per tre volte sono stato eletto vice-presidente della Federazione».

Quell’11 agosto 2014, con Tavecchio che vinse la consultazione per la presidenza della Figc, lei, suo principale rivale, uscì da signore dalla tenzone elettorale. Ci rimase male?

«Sono sincero, la mia fu più che altro una volontà di mettermi a disposizione, non avevo il sogno di diventare numero uno della Figc. Quell’elezione non l’ho vissuta come una sconfitta».

Adesso guida il Settore Tecnico della stessa Federazione. Contento?

«Molto. Quando il presidente Gravina mi ha chiesto di ricoinvolgermi in un ruolo più tecnico e meno politico, ho risposto di sì. Stiamo facendo cose concretamente importanti. A Coverciano abbiamo Mauro Sandreani, che era giunto con Antonio Conte Ct, e Maurizio Viscidi, che ho voluto io personalmente. Un po’ di Padova, con noi tre, c’è sempre».

Per concludere, questa emergenza sanitaria legata al Covid-19 cambierà il calcio, magari con l’introduzione delle riforme?

«Lo cambierà di sicuro, anche se non è detto che il quadro complessivo peggiorerà. Avremo una gestione diversa sul piano economico, ma le riforme dei campionati saranno inevitabili. Il problema vero sarà quello di riunire e conciliare gli interessi dalle varie componenti, per trovare la volontà di guardare non al domani, ma molto più in là».

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