«Il basket è vita per ottenere fatti rispettare»

Gigi Magro, 55 anni, il mastino dei parquet «Ho marcato Meneghin, Morse e Bryant»
Di Mattia Rossetto

PADOVA. Dino Meneghin, Drazen Dalipagic, Bob Morse, Dragan Kicanovic, Mike D’Antoni, Willie Sojourner, Lee Johnson, Winfred King. E l’elenco potrebbe continuare. Se incontri Gigi Magro, non puoi fare a meno di pensare che ha affrontato delle autentiche leggende del basket internazionale. Campioni immortali nella memoria dei tifosi con le basette bianche, che tra la fine degli anni Settanta e l’intero decennio Ottanta hanno scritto la storia della serie A italiana. Anzi di più. Perché in campo tutti questi fuoriclasse, lui li ha addirittura marcati. «Compreso Joe Bryant (padre di Kobe dei Los Angeles Lakers, ndr), un lungo da 208 centimetri, che appena si alzava ti stendeva con un tiro micidiale» precisa Magro, 55 anni, originario di Sant’Angelo di Piove, alle spalle un lungo trascorso da professionista con le maglie di Virtus Padova, Superga Mestre, Honky Jeans Fabriano, Facar Pescara, Imola, Gorizia e infine Floor Petrarca.

«Ancora adesso», rileva Magro, «ricordo molto bene una schiacciata terrificante di Lee Jonhson, altro fenomeno proveniente dalla Nba, che giocò a Rieti, Napoli e Livorno. Avevo preso posizione in area, ma mi saltò a piedi pari in tutta l’altezza schiacciando a canestro. In quella stessa partita non appena provai a sfiorarlo, mi urlò a squarciagola “dont’touch me!” (non toccarmi) e sferrò una gomitata in aria, che fortunatamente riuscii a schivare. Dicono fosse un tipo un po’ matto, tanto è vero che tenne con una mano le gambe della sua compagna sospesa a testa in giù fuori dalla finestra».

Gigi Magro era il prototipo del giocatore moderno ideale, ricercato da scout e allenatori per le notevoli doti atletiche e agonistiche. Uno di quei pivot da 2 metri, molto mobile, tecnico e prestante, che fece della difesa il suo marchio di fabbrica. «In effetti», ammette Magro, «ero uno che “pestava”, ma non è che fossi cattivo. Ero più che altro tignoso, mi adattavo a difendere su chiunque». Il suo percorso cestistico è quantomeno singolare. Appartiene alla nidiata di talenti, classe 1957, “partorita” dagli juniores della Virtus Padova, ma ha chiuso col professionismo al Petrarca. Nelle fila virtussine, tenute insieme dal grande Paolo Parpajola, ha meritato la serie B, al tempo seconda competizione nazionale assoluta.

E dopo le giovanili alla Virtus cosa successe? «Fui arruolato tra i “Granatieri di Sardegna”, un antico corpo della fanteria militare, dove tuttavia non prestai mai servizio. Ero appena diventato il nuovo centro del Vicenza, ma si presentò l’opportunità di giocare nella squadra delle forze armate a Roma. La società, però, non mi lasciò andare e cercò di tenermi nascosto in ogni modo con il benestare del colonnello Marinangeli senza peraltro riuscirvi. Durante la leva, riuscii a ottenere delle convalescenze e in estate scappai a Mestre in A/2. L’annata seguente tornammo in A/1 e scesi in campo a fianco al mitico “sceriffo” Chuck Jura».

Nel club mestrino rimase solo per un biennio. Come mai? «Allora noi giocatori eravamo considerati pura merce di scambio. Aldo Celada, in quegli anni presidente del Mestre, mi cedette alla Honky Jeans Fabriano di coach Alberto Bucci. Una formazione bella e veloce, in cui militavano anche Leonardo Sonaglia, Mark Crow e Rodolfo Valenti».

Ma anche qui rimase poco. Fu colpa del solito presidente affarista? «Già. Funzionava così: conclusa la stagione, appresi dai giornali, che Fabriano mi aveva venduto alla Facar Pescara. Altro squadrone, guidato da Marcello Perazzetti. È stata una delle più belle parentesi della mia carriera. Ancora una volta, però, fui costretto a trasferirmi. Stavolta a Imola. Nella finalissima playoff persa contro la nascente Mens Sana Siena, la dirigenza fece di tutto per evitare il salto di categoria e negli spogliatoi non venne mai nessuno a incoraggiarci».

Come si riprese da questa delusione? «Smaltii l’insoddisfazione a Gorizia. Qui, ho incontrato la mia futura moglie Cristiana, assieme alla quale ritornammo poi a Padova».

Col ritorno all’ombra del Santo, si apre il suo ultimo capitolo nella pallacanestro professionistica al Petrarca. Ha qualche rammarico per gli anni precedenti? «No, anche perché al Petrarca mi trovai molto bene. A chiamarmi era stato Valdi Medeot, mio allenatore a Gorizia, diventato head coach del Floor. In serie B conquistammo la promozione al termine di una finale incredibile contro Udine. Furono anni stupendi, dove disputammo un campionato di vertice in A/2 centrando i playoff. Mi sarei però aspettato maggiore entusiasmo da parte della città. Alle partite era triste vedere al San Lazzaro soltanto 1.500 spettatori».

Cosa manca alla palla a spicchi padovana per emergere? «Forse, occorre un po’ di quella passione che c’era una volta, quella che per intenderci avevamo da piccoli tirando al campetto da basket parrocchiale o in qualche playground di periferia».

Terminata l’esperienza petrarchina cosa fece? «Andai alla Piovese, la squadra del mio paese, con cui vinsi il campionato di C/1 approdando in B/2. In seguito, tirai qualche canestro per divertimento pure a Chioggia in serie D».

Lo stipendio non era più lo stesso degli anni d’oro in A/1 o A/2. Quale diventò la sua nuova occupazione? «Assieme a mia moglie avevamo rilevato la cartoleria di Sant’Angelo. La trasformammo in un negozio d’oggettistica e arredi per la casa. Cristiana faceva già la commerciante. È stata lei a farmi scoprire la passione per l’artigianato tipico. Abbiamo aperto altre due attività commerciali, specializzate nella vendita di complementi d’arredo con mobili di medio e alto livello dallo stile raffinato. Da cinque anni gestisco il punto vendita “La casa di Crilù” in via dei Soncin a Padova».

Il richiamo della palla a spicchi, però, è ancora vivo. Recentemente, l’abbiamo vista calcare il parquet all’amichevole tra la Nazionale basket artisti e le Old Stars Veneto con Antonello Riva, Roberto Premier, Andrea Gracis e altri campionissimi del passato. «Sto continuando a giocare con gli Stingers Padova. È una squadra composta da “ragazzi” Over 40 e 50, che ha partecipato a vari tornei internazionali, come quello di Alassio e il rinomato Alpe Adria. Nel 2008 abbiamo ottenuto il secondo posto ai campionati italiani master cedendo nella finalissima di Rimini a Pesaro, che schierò a “tradimento” Dan Gay».

Come è nata l’idea di costituire gli Stingers? «Eravamo un gruppo di ex giocatori, abbiamo deciso di allestire questa squadra perché volevamo coinvolgere Renzo Menin, un nostro caro amico anch’egli ex cestista, risvegliatosi dal coma dopo un grave incidente d’auto. Per me il basket ha sempre rappresentato un passepartout, qualcosa che mi accomuna ad altre persone».

Ora, in A/1 c’è un altro Magro che sta seguendo le sue orme. Suo nipote Daniele (ex Triveneta Gattamelata) sta provando a ritagliarsi il suo spazio alla Reyer Venezia, ma ha fatto parte pure del gruppo azzurro del ct Simone Pianigiani per le qualificazioni agli Europei. Al suo erede cestistico naturale zio Gigi dispensa qualche consiglio? «Ogni tanto ci sentiamo, lo sprono a dare di più. Ha avuto la fortuna di finire in serie A e in Nazionale. Con i suoi 208 centimetri ha tutte le potenzialità per rendere al meglio. E poi chissà, forse un giorno anche lui potrebbe trovarsi di fronte un Bryant».

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